lunedì 28 febbraio 2011

Yoga to the People!

Pratico lo yoga da dodici anni. Il mio maestro, in Italia, è un uomo simpatico che non si dà arie da guru ma che pratica serissimamente lo yoga da trent’anni. Lo yoga che faccio con lui si chiama Viniyoga. Cito dal sito dell’”Accademia Yoga di consapevolezza”: “Lo yoga deve essere praticato in funzione del livello di chi lo pratica e Viniyoga significa ‘pratica appropriata in funzione della situazione o delle condizioni’ (…) Non è come una maratona dove tutti partono e arrivano allo stesso punto e il primo che vi arriva è il migliore. (…) Un principio che deve essere salvaguardato è che lo yoga deve promuovere la salute e non causare la malattia. E una pratica di yoga non adatta può essere pericolosa. Questo perché i mezzi utilizzati dallo yoga lavorano in modo molto sottile ma comunque potente, quindi bisogna praticarli con cautela. (…) Due dei più importanti mezzi utilizzati dallo yoga sono: asana (posizioni yoga) e pranayama (regolazione del respiro). (…) È evidente che per fare tutto questo è necessario l'aiuto di una guida esperta, un insegnante serio e preparato che può indicarci il ‘percorso’ da fare tenendo conto del contesto e delle esigenze personali.”
Ho riportato questa descrizione perché la trovo molto significativa per indicare tutto quello che non ho trovato nella mia (breve, lo ammetto) esperienza yogica qui negli Stati Uniti.
Bikram Choudhury, il fondatore miliardario del bikram yoga
Prima di tutto, qui Viniyoga™ è un marchio registrato. Il fondatore dell’American Viniyoga Institute scrive: “Pratichiamo per approfondire la nostra autocoscienza, per consolidarci nel presente, impartire una direzione al nostro futuro e realizzare appieno il nostro potenziale”. Manca solo l'immortalità, ma a quella ci stiamo lavorando.
Gli americani, si sa, sono impazziti per lo yoga (che però adesso sta cominciando a passare di moda), e con il loro approccio business-oriented hanno cominciato a brevettare tecniche vecchie di millenni, cosa che ha notevolmente irritato il governo e il popolo indiano (vedi per esempio qui: http://www.timesonline.co.uk/tol/news/world/asia/article1862524.ece).

Antigravity yoga
La mia prima volta con l’“American Yoga” è stata cinque o sei anni fa, quando andai a provare una seduta e mi ritrovai in una sala piena di gente con tutine attillate e tappetini ipertecnici, che si contorceva in posizioni impossibili, compresa la temibile posizione a testa in giù, quella che se non sei più che esperto ti schiaccia le vertebre cervicali che è una bellezza. Quando, al termine della seduta, chiesi all'insegnante come mai non avesse dato la minima indicazione riguardo alla respirazione (lo yoga senza respirazione è come una carbonara senza uova), lei mi rispose che al corso intensivo di tre settimane che le aveva rilasciato il diploma di insegnante le avevano detto che sì, poteva anche insegnare la respirazione, ma lei spesso lasciava perdere perché non le interessava. Da quel momento in poi ho sempre evitato lo yoga "made in Usa", dal Bikram yoga (detto anche "hot yoga" perché si pratica in una stanza-forno a più di 40°, che consente di sentirsi più agili e flessibili), a tutte le varianti power yoga, yogilates (yoga+pilates), yoga anticellulite eccetera eccetera. Ultimamente ho sentito parlare anche di uno "Slim Calm Sexy Yoga", che si può ordinare (?) e provare gratis per 21 giorni.
Devo dire che mi fanno una certa simpatia quelli di Yoga To The People, che vogliono "ritrovare l'autentico spirito dello yoga" scoraggiando l'uso di tutine e tappetini dai prezzi esorbitanti e propongono sedute a offerta libera. Li ho visti a Berkeley (e dove, sennò?), ma non credo che ci andrò. C'è troppo vapore, su quella vetrina.

Berkeley (foto mia)
[Aggiornamento: ho trovato dove fare yoga: QUI]

domenica 27 febbraio 2011

Beautiful Artists/3.1: Noa Charuvi and Activestills

After I published the post about her art (http://ninehoursofseparation.blogspot.com/2011/02/beautiful-artists3-noa-charuvi-visual.html), Noa Charuvi posted a comment saying: "The Bedroom is based on a photograph by Activestills, an amazing group of photographers from Israel\Palestine committed to political and social wrongs".
So I checked Activestills' website, and I found their work to be extremely powerful and fascinating. This is what they say about themselves: "The Activestills collective was established in 2005 by a group of Israeli and international documentary photographers, out of a strong conviction that photography is a vehicle for social change. We believe in the power of images to shape public attitudes and to raise awareness on issues that are generally absent from public discourse. We view ourselves as part of the struggle against all forms of oppression, racism, and violations of the basic right to freedom. We do work on various topics, including the grassroots movement and the popular struggle against the Israeli occupation, women’s rights, immigration, asylum-seekers, social justice, the siege on Gaza, and housing rights inside Israel. The work as a collective is based upon the belief that mutual work serves each photographer‘s personal statement, and that joint projects will create shared statements that are more powerful than individual ones. The collective, now consisting of ten photographers, operates in Israel/Palestine and focuses on social and political documentation, project production, publication, and exhibition."
This is their website: http://www.activestills.org/
And this is one of their pictures

venerdì 25 febbraio 2011

Il mio viaggio con Franzen

"Ogni anno migliaia di uccelli migratori che transitano nel bacino del Mediterraneo vengono uccisi da cacciatori e bracconieri. In Italia, a Cipro e a Malta si consuma una carneficina che sta svuotando i cieli europei." L'anticipazione nel sommario del numero di Internazionale  di questa settimana fa riferimento al reportage Cieli silenziosi di Jonathan Franzen, ovvero alla traduzione (mia) dell'articolo Emptying the Skies, pubblicato nel luglio 2010 sul New Yorker (http://www.newyorker.com/reporting/2010/07/26/100726fa_fact_franzen). (Internazionale ha deciso brillantemente di intitolare il reportage Cieli silenziosi, un richiamo alla Primavera silenziosa di Rachel Carson che Franzen apprezzerebbe senz'altro.)

L'articolo di Franzen, accanito (ed erudito) birdwatcher, è il frutto di un viaggio compiuto l'anno scorso in Italia, a Cipro e a Malta per documentare la piaga del bracconaggio, molto diffusa in tali paesi. Io stessa gli ho fatto da interprete per una parte della tappa italiana, due settimane in cui ho viaggiato insieme a lui e l'ho aiutato con le interviste. Durante quel viaggio (oltre a venire ulteriormente contagiata dalla passione ornitologica di Franzen, approfondendo un contagio già cominciato quando tradussi il suo saggio Il mio problema ornitologico) ho incontrato persone meravigliose che lottano instancabilmente contro la caccia illegale, buona parte delle quali sono citate nell'articolo: le guardie del WWF in provincia di Salerno, i bracconieri pentiti come Sergio e i cacciatori responsabili come Massimo, e poi una grande donna dal grande cuore: Anna Giordano, la storica attivista che da anni, con il suo coraggio e la sua tenacia, rappresenta l'anima della lotta contro il bracconaggio sullo stretto di Messina.

Una guardia forestale, Anna Giordano e Jonathan Franzen 
nelle rovine di un bunker di bracconieri sulle montagne sopra Messina (foto mia)







Ecco cosa scrive Franzen di Anna Giordano, dall'articolo di Internazionale: "Dal 1981, quando aveva quindici anni, Giordano tiene d’occhio i bunker di cemento da cui i rapaci venivano abbattuti a migliaia mentre sorvolavano a bassa quota le montagne sopra Messina. A differenza dei calabresi, che il falco pecchiaiolo lo mangiavano, i siciliani lo uccidevano esclusivamente per rispettare la tradizione, per fare a gara tra loro e per portare a casa un trofeo. Alcuni sparavano a qualunque cosa volasse, altri si limitavano al falco pecchiaiolo (che veniva chiamato 'l’Uccello'), a meno che non avvistassero un’autentica rarità come l’aquila reale. Giordano correva dai bunker al telefono pubblico più vicino, da dove chiamava la guardia forestale, e poi di nuovo ai bunker. Le hanno danneggiato più volte la macchina, l’hanno minacciata e insultata, ma nessuno le ha mai fatto del male, probabilmente perché era una giovane donna (la parola italiana per 'uccello', un comune sinonimo di 'pene', ha spesso generato battute volgari su di lei, ma un poster che ho visto sulla parete del suo ufficio capovolgeva la battuta: 'La tua virilità? Un uccello morto'). Con successo sempre maggiore, soprattutto dopo l’arrivo dei telefoni cellulari, Giordano ha costretto la guardia forestale a usare la mano pesante con i bracconieri, e la sua fama crescente ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione e le ha portato legioni di volontari. Negli ultimi anni, le sue squadre hanno denunciato meno di una decina di spari per stagione."
(Traduzione della sottoscritta)
Potete leggere l'intero articolo qui: http://www.internazionale.it/?p=31608






Visita medica per la green card - seconda parte

Dopo essere tornata al centro medico una seconda volta per controllare, dall’evoluzione della puntura sul braccio, che non avessi la tubercolosi (da quel che ho capito: normale livido = negativo; alone rosso = positivo), ieri ci sono tornata per la terza volta per ritirare gli esiti delle analisi del sangue, documento indispensabile per cominciare le pratiche per la green card, e soprattutto per ottenere, nel giro di circa tre mesi, il permesso di lasciare il paese (il famoso Advance Parole).
Dopo un altro rapidissimo interrogatorio da parte di un’altra infermiera, che questa volta mi chiede se fumo, bevo alcol, caffè o tè, il dottor Li entra nello studiolo, guarda le mie carte e dice con aria preoccupata che c’è un problema. Io, che ormai pensavo di poter andar via tutta contenta con la mia pratica firmata, lo guardo con orrore. Il problema, prosegue il dottor Li, è che non solo non sono risultata immune alla rosolia e al morbillo, ma soprattutto non sono ancora arrivati i risultati del test sulla sifilide. L’appuntamento per il ritiro delle analisi è stato preso “a little aggressively”, aggiunge, descrivendo così, in modo generosamente pittoresco, le mie furibonde insistenze per ricevere al più presto i risultati (e poter così finalmente dare inizio alla benedetta procedura). Non c’è niente da fare, oggi può vaccinarmi per le malattie infantili che non ho avuto da piccola (e che mai più avrei avuto in vita mia, penso io), ma dovrò tornare la settimana prossima per ritirare gli esiti finali, scoprire che non ho la sifilide, e soprattutto andarmene via con tutte le carte da lui compilate e firmate, che confluiranno nel pacchetto di documenti necessari all’avvio della pratica. Il dottor Li è gentile, si scusa quasi per il fatto che le vaccinazioni siano a pagamento, e d’altronde c’è ben poco da fare. Mentre l’infermiera mi punge il braccio, vedo tristemente la data del mio rientro in Italia slittare avanti ancora di qualche giorno.
Questa volta pago solo le vaccinazioni, perché le due visite mediche le avevo già pagate l’altra volta: centosette dollari e settanta centesimi.

La traduttrice felice

Questa mattina ho trovato un bel post sull'ottimo magazine online "A piè di pagina" (http://apiedipagina.it/a-pie-di-pagina/), intitolato Silvia Pareschi e Jonathan Franzen: Libertà.

Questo titolo contiene diverse meraviglie: 1) il mio nome viene citato insieme a quello dell'autore; 2) è scritto con un carattere delle stesse dimensioni; 3) è scritto per primo.
Davvero un gran bel modo per cominciare la giornata! 

Ecco qui il post:  http://apiedipagina.it/2011/02/25/silvia-pareschi-e-jonathan-franzen-liberta/

(Aggiornamento: il link non si apre più. Peccato!)

giovedì 24 febbraio 2011

Things one finds on the street

A racetrack for snails

Denis Johnson/2: Albero di fumo, ancora un romanzo sul Vietnam

Ripubblico qui un mio articolo comparso sull’Indice dei libri del mese nell'aprile del 2009, sul romanzo di Denis Johnson Albero di fumo, da me tradotto per Mondadori. (Il link all'articolo non si trova, perciò lo posto qui per intero.)

Ancora un romanzo sul Vietnam  
La domanda che ritorna spesso quando si parla di Tree of Smoke, il poderoso romanzo con il quale Denis Johnson ha vinto il National Book Award 2007, è se fosse necessario un altro romanzo sul Vietnam. La risposta è sì, per molteplici ragioni. La prima è che Tree of Smoke – dedicato a HP, che sta, molto probabilmente, per Higher Power – è un romanzo in cui la guerra del Vietnam si espande fino a diventare un simbolo di tutti i conflitti combattuti in nome di un Potere Superiore, umano o divino (“albero di fumo” è un’espressione tratta dalla Bibbia che viene usata in riferimento al fungo atomico nell’oscuro complotto spionistico che fa da sfondo al romanzo), fra i quali è possibile riconoscere anche l’attuale guerra contro l’Iraq. Anche qui, infatti, come nelle opere precedenti di Denis Johnson, i protagonisti sono anime smarrite che brancolano in un mondo di calvinistica predeterminazione, dove “alcuni erano sicuramente e assolutamente scelti per la salvezza, mentre altri erano altrettanto assolutamente destinati alla rovina”. Soprattutto, in Tree of Smoke, la guerra del Vietnam torna come traguardo di un filo conduttore che percorre, più o meno marginalmente, tutte le opere di Denis Johnson, da Angels (1983), in cui viene tracciata la tragica parabola post-bellica dei due fratelli James e Bill Houston, che tornano come protagonisti di Tree of Smoke, a Fiskadoro (1985), romanzo post-apocalittico in cui compare brevemente un altro dei protagonisti di Tree of Smoke, il vietnamita Nguyen Minh, che ritroveremo anche in Resuscitation of a Hanged Man (1991) insieme a Jimmy Storm, un altro personaggio del romanzo, e così via, in un rincorrersi di echi che trasformano Tree of Smoke in un prisma nel quale si riflettono i temi e i personaggi di tutta l’opera precedente di Johnson.
Lo stesso rincorrersi di echi si ritrova poi su un piano più ampio, che trasforma il romanzo in un pastiche postmoderno contenente innumerevoli allusioni alla letteratura e alla filmografia sul tema del Vietnam. Se finora le opere sul Vietnam erano state scritte da testimoni diretti, spesso prima di tutto testimoni e solo in seconda istanza scrittori, il romanzo di Johnson, che non ha combattuto in quella guerra, va a occupare uno spazio nuovo, lo spazio della rielaborazione e in un certo senso della universalizzazione di quella testimonianza. L’autore fornisce un richiamo esplicito alla letteratura precedente sul conflitto vietnamita nominando, in un dialogo fra due personaggi chiave del romanzo, Skip Sands e Kathy Jones, quell’importante capostipite che fu The Quiet American di Graham Greene, romanzo che nel 1956 profetizzava con incredibile lucidità la debacle statunitense. E non a caso Skip Sands lo cita insieme a un’altra opera importante anche se meno nota, The Ugly American (1958), nel quale gli autori, William J. Lederer e Eugene Burdick, denunciavano l’inefficienza della diplomazia Usa in Indocina. Questi due titoli sono emblematici della traiettoria che Skip Sands compirà nel corso del libro, dall’idealismo alla disillusione fino a un inevitabile destino tragico: “Fra gli stranieri che la guerra rese irriconoscibili – anche, o soprattutto, a se stessi – c’erano una giovane vedova canadese e un giovane americano che a volte si vedeva come l’Americano Tranquillo e a volte come l’Americano Brutto, e che non voleva essere nessuno dei due, ma avrebbe voluto essere l’Americano Saggio, o il Buon Americano, e che invece finì col sentirsi il Vero Americano e infine semplicemente l’Americano Schifoso.” 
Diventa così possibile leggere il romanzo alla luce dei topoi della letteratura americana sul Vietnam, ripercorsi, reinterpretati e talvolta sovvertiti dall’autore. La struttura generale della narrazione, innanzitutto, in cui la frammentarietà e l’abbandono della linearità cronologica riecheggiano l’allucinazione della guerra, con l’alternanza fra le esplosioni adrenaliniche delle battaglie e le lunghe attese fra uno scontro e l’altro, ricorda immediatamente quella grande opera di New Journalism che è Dispatches di Michael Herr (1977), ma anche The Things They Carried di Tim O’Brien (1990) e The Short Timers (1979) di Gustav Hasford, romanzo dal quale venne tratta, con la collaborazione dello stesso Michael Herr, la sceneggiatura di Full Metal Jacket. Se le atmosfere surreali di quest’ultimo si ritrovano in molte scene del libro, un’altra potente eco cinematografica in Albero di Fumo è quella di Apocalypse Now, di cui ancora una volta Michael Herr fu co-sceneggiatore. La figura del Colonnello Francis Xavier Sands, eroe della Seconda Guerra Mondiale e scheggia impazzita negli alti ranghi dell’Agenzia, non è infatti altro che una nuova incarnazione del Kurtz conradiano: “E comunque la guerra è al novanta per cento mito, no? Per portare avanti le nostre guerre le eleviamo al livello di sacrificio umano, e invochiamo costantemente il nostro Dio. Nella guerra deve esserci qualcosa di più grande della morte, altrimenti saremmo tutti disertori. Penso che dovremmo esserne molto più consapevoli. Penso che dovremmo invocare anche gli dei del nemico. E i suoi demoni. Il nemico ha più paura delle sue divinità e dei suoi demoni di quanta ne avrà mai di noi.” Ma il Colonnello di Johnson, distorto attraverso la lente dell’ironia postmoderna, si trasforma in un personaggio ai limiti del grottesco, la cui iniziale immensità viene sminuita da una fine oscura e probabilmente indegna della sua fama mitica.
La lingua usata da Johnson è la stessa che accompagna tutta la letteratura e la cinematografia sul Vietnam: da un lato la lingua burocraticamente oscura dei vertici militari, dall’altro il gergo dei soldati, lo slang afroamericano dal ritmo sincopato, la lingua drogata e allucinata di uomini che, come in Herr, vedono la realtà intorno a sé ma non riescono a dare un senso alle immagini depositate nel loro cervello. La rivisitazione di temi e luoghi non può non comprendere il piacere della violenza, la follia omicida che assume i contorni della tortura di un presunto vietcong o dello stupro e omicidio di una donna vietnamita. E tuttavia nel Vietnam di Johnson non vi è spazio per le semplificazioni: “Buttavano bombe a mano dentro le capanne amputando braccia e gambe a contadini ignoranti, salvavano cuccioli affamati e se li portavano a casa, in Mississippi, nascosti sotto la camicia, incendiavano interi villaggi e violentavano bambine, rubavano jeep cariche di medicine per salvare la vita agli orfani.”
Il romanzo di Johnson, dunque, può essere visto come la rivisitazione di un genere, nella quale i luoghi comuni del genere stesso vengono evitati grazie all’ironia o alla intensa capacità di comprensione umana dell’autore. È questo il caso di un altro cliché della letteratura sul Vietnam: l’invisibilità del nemico. In Tree of Smoke scompare infatti la visione etnocentrica di “Charlie” (a cui era sfuggito forse solo Robert Olen Butler, con i racconti A Good Scent from a Strange Mountain del 1992, i cui protagonisti sono vietnamiti emigrati in America), e i personaggi vietnamiti diventano un elemento fondamentale del romanzo, al quale aggiungono profondità e interesse.
E così, in contrasto con la fondamentale misoginia della letteratura di guerra in generale e di quella sul Vietnam in particolare, Johnson affida la scena e il senso finale del romanzo a una donna, la missionaria Kathy Jones, che conserva l’estrema speranza di una salvezza raggiunta malgrado la disperazione, o forse proprio grazie a essa. “Kathy sedeva in mezzo al pubblico pensando: qualcuno qui ha il cancro, qualcuno ha il cuore spezzato, qualcuno ha perduto l’anima, qualcuno si sente nudo e straniero, pensa che un tempo conosceva la strada ma adesso non la ricorda più, si sente solo e privo di corazza, fra queste persone c’è qualcuno con le ossa rotte, altri che prima o poi se le romperanno, persone che hanno rovinato la propria salute, adorato le proprie menzogne, sputato sui propri sogni, voltato le spalle alle proprie convinzioni, sì, sì, e tutti saranno salvati. Tutti saranno salvati. Tutti saranno salvati.”

mercoledì 23 febbraio 2011

Xtranormal: So You Want to Write a Novel

I've just learnt about the existence of Xtranormal ("a website which hosts text-to-speech based computer animated videoclips which can be created by any user and uploaded by a downloadable program or created directly online", according to Wikipedia), and I'm having a lot of fun.

Here's a (very true) sample: "So You Want to Write a Novel".

Beautiful Artists/3: Noa Charuvi, visual artist


New York based Israeli artist Noa Charuvi paints from photojournalistic images taken in Gaza. I was really struck by her colorful oil canvases and her works on paper, which abstract the demolished buildings ravaged by the Israeli-Palestinian conflict. Noa synthesizes abstract and figurative painting through her highly developed use of color and her sensitivity to form, and the site-specificity of the source images, in contrast with her process of deconstructing the photographed forms, creates a body of work that demands attention and observation.  


Babel, oil on canvas
(based on a photograph of Gaza 
after operation Cast Lead)

The Bedroom, for example, "depicts the traces of life in what was once a domestic setting; furniture and belongings are strewn across the interior as the torn walls expose the room as a destroyed landscape." (from the press release of the show  "Heat Wave" at Lombard-Fried Projects, NYC).
Her subject matter, which deals with the political aspects of art from a painfully personal point of view, shows a thoughtfulness that, combined with her fine craftsmanship, makes her a very impressive artist.

You can see more of Noa's art on her website, here:  http://www.noacharuvi.com/


The Bedroom, oil on canvas

martedì 22 febbraio 2011

Diagram Prize for the Oddest Book Title of 2010

The Diagram Prize shortlist has been announced. I'm not crazy about this year's selection (The Generosity of the Dead, Myth of the Social Volcano or What Color Is Your Dog? are not such strange titles, and The Italian's One-night Love Child is just somewhat disquieting, given the latest news about Italian politics), but I think that Managing a Dental Practice the Genghis Khan Way is actually a pretty good candidate for the title.

My favourite winners from the past are Proceedings of the Second International Workshop on Nude Mice by Various Authors (1978, University of Tokyo Press, winner of the first edition); Oral Sadism and the Vegetarian Personality by Glenn C. Ellenbogen (1986, Brunner/Mazel); How to Shit in the Woods: An Environmentally Sound Approach to a Lost Art by Kathleen Meyer (1989, Ten Speed Press); Reusing Old Graves: A Report on Popular British Attitudes by Douglas Davies and Alastair Shaw (1995, Shaw and Son); The Big Book of Lesbian Horse Stories by Alisa Surkis and Monica Nolan (2003, Kensington Publishing); and People Who Don't Know They're Dead: How They Attach Themselves to Unsuspecting Bystanders and What to Do About It by Gary Leon Hill (2005, Red Wheel/Weiser Books). 

Read more here: http://www.thebookseller.com/news/diagram-prize-shortlist-announced.html

    Denis Johnson/1: "Albero di fumo" e la morte della scimmia

    "I'm gonna make the best of this fuck-a-monkey show."
    Quello che segue è un estratto dal primo capitolo del romanzo di Denis Johnson, Albero di fumo, da me tradotto per Mondadori nel 2009. Tradurlo non è certo stata una passeggiata, ma è stata anche una grossa soddisfazione. Un libro poderoso, gigantesco, imperfetto e a tratti ostico, ma anche, come ha scritto Emanuele Trevi sul manifesto, "una pietra miliare, un passo avanti irrinunciabile nelle vicende del romanzo contemporaneo". Traducendolo ho dovuto fare i conti con uno stile "tutto sbalzi e cambi di marcia", come lo chiama Trevi, ma anche con uno slang spinto, reinventato, con una poetica e un immaginario personalissimi e al contempo imbevuti dell'atmosfera psichedelica della letteratura e della filmografia sul Vietnam. 

    Massimo Raffaeli ha scritto, su "Alias" del 9 maggio 2009 (perdonate l'autopromozione): "Ma colpisce, in un romanzo tanto esorbitante, il carattere di serietà o di tangibile necessità che il manierismo di Johnson testimonia appieno anche nella versione di Silvia Pareschi, sul serio ammirevole per adesione all'impervia partitura originale, tutta sbalzi e cambi di marcia. In chi legge è costante la sensazione che sia in gioco non tanto la capacità di assolo di un virtuoso quanto l'etica di uno stile e, dunque, il fondamento di una verità nel mondo della procurata mistificazione."


    Pubblico qui di seguito un estratto dal primo capitolo del libro, una delle scene più potenti e folgoranti che mi sia mai capitato di leggere.

    Appoggiò il fucile contro un banano rachitico, si tolse la fascia dalla fronte, la strizzò e la usò per asciugarsi la faccia e cacciar via le zanzare, fermandosi un po’ a grattarsi distrattamente l’inguine. Lì vicino, un gabbiano sembrava impegnato in una lite con se stesso, una serie di strida di protesta interrotte da grida più cupe, una specie di huh, huh, huh! E qualcosa che si spostava da un albero all’altro attirò l’attenzione del marinaio Houston.
    Continuò a fissare il punto in cui aveva visto quella cosa, fra i rami di un albero della gomma, allungando la mano verso il fucile senza distogliere lo sguardo. La cosa si spostò di nuovo. Ora si accorse che si trattava di una specie di scimmia, non molto più grande di un chihuahua. Non era esattamente un cinghiale, ma si offriva comunque all’attenzione, mentre, aggrappata con la mano sinistra ed entrambi i piedi al tronco dell’albero, graffiava la corteccia sottile con minuscola, esasperata premura. Il marinaio Houston inquadrò nel mirino la schiena ossuta della scimmia. Alzò la canna di qualche grado e mirò alla testa. Senza davvero riflettere, tirò il grilletto.
    La scimmia si appiattì contro l’albero, allargando braccia e gambe con aria entusiasta, poi si portò le mani dietro la schiena come per grattarsi e precipitò a terra. Il marinaio Houston assistette con terrore alle sue convulsioni. La scimmia si drizzò facendo leva sul braccio, poi si mise a sedere con la schiena contro l’albero, a gambe divaricate, come per riposare dopo un lavoro faticoso.
    Il marinaio Houston si avvicinò di qualche passo e, da pochi metri di distanza, vide che aveva il pelo molto lucido, tendente al rosso henné all’ombra, e al biondo sotto la luce che filtrava tra le foglie in movimento. Si guardava intorno, respirando a grandi singulti ravvicinati, e ogni respiro le gonfiava enormemente la pancia, come un pallone. Il proiettile l’aveva colpita in basso, uscendo dall’addome.
    Il marinaio Houston sentì lo stomaco lacerarsi. «Gesù Cristo!» urlò alla scimmia, come se le sue parole potessero modificare quell’imbarazzante e odiosa situazione. Pensò che gli sarebbe scoppiata la testa, se il mattino avesse continuato a bruciare la giungla circostante, se i gabbiani avessero continuato a gridare, se la scimmia avesse continuato a guardarsi intorno con circospezione, muovendo la testa e gli occhi neri da una parte all’altra come per seguire lo sviluppo di una discussione, di una disputa, di un litigio che la giungla, il mattino, il momento stavano conducendo con se stessi. Il marinaio Houston si avvicinò alla scimmia, posò il fucile lì accanto e la sollevò, con una mano sotto le natiche e l’altra sotto la testa. Si accorse, dapprima rapito, poi orripilato, che l’animale stava piangendo. Aveva il respiro rotto dai singhiozzi, e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi a ogni battito di palpebre. Guardava qua e là, senza mostrare un particolare interesse per il marinaio. «Ehi» disse Houston, ma la scimmia non parve sentirlo.
    Mentre la teneva in braccio, il suo cuore cessò di battere. Houston la scrollò, ma capì che era inutile. Ebbe la sensazione di essere colpevole di tutto, e lì, al riparo da sguardi indiscreti, si lasciò andare e pianse come un bambino. Aveva diciott’anni.

    lunedì 21 febbraio 2011

    A triple lutz with a camel: Franzen, Goodman and "The Great American Novel"

    An interesting article by Gabriel Brownstein, comparing Franzen's "Freedom" to "The Cookbook Collector" by Allegra Goodman. 

    "Part of what makes Franzen so exciting to his admirers and so frustrating to his critics is his attempt to wed whacked-out and dark postmodern irony to sympathetic humanist realism (...) Franzen’s novel—his whole career, really—is a struggle with this postmodern ironical trap, a struggle to inhabit it and get out of it, to be humane and to be ironic.  At the end of Freedom, when the Berglunds, Walter and Patty, huddle together after 500-plus pages of humiliations, affairs, failures, and addictions, and in the ruins of their marriage find some comfort from the horrid world all around—well, it’s proof (if proof was ever needed) of Franzen’s extraordinary gifts.  This final section succeeds movingly. (...) But he never can quite turn it off, and you feel it, the televisual irony, all throughout the course of Freedom. Franzen is dancing with you, sure, and with Walter and Patty as well, and his moves are wild and Tony Manero dazzling—but he’s not wholeheartedly on the floor with his partners. (...) Franzen’s characters meanwhile exist somewhere beneath the glory of his prose.  His book is not so much addressed to the intimate reader, it’s addressed to the judges and the crowds.  His characters are anxious, but he is supremely confident.  He has managed to shuck the difficulties of postmodern fiction while retaining much of its cool and distant pose.

    The rest of the article here: http://www.themillions.com/2011/02/the-big-show-franzen-goodman-and-the-great-american-novel.html

    High Times in the City: marijuana in California


    In California, in seguito a un referendum del novembre 1996 (approvato con il 56% dei voti), è consentito il consumo di marijuana per uso medico. Il paziente può ottenere una tessera, la Medical Marijuana Card, per svariati motivi, fra cui AIDS, anoressia, artrite, cancro, emicrania, spasmi muscolari, nausea, e "altri sintomi cronici o persistenti" (definizione, quest'ultima, che lascia molto spazio alla fantasia). Una volta ottenuta la tessera, il paziente si reca in un dispensario (luoghi ad alto tasso di security, naturalmente), e acquista la quantità necessaria, scegliendo da un vasto menu adatto a ogni esigenza.


    Nel novembre 2010 si è votato per un altro referendum, la Proposition 19, questa volta per legalizzare l'uso della cannabis. I promotori del referendum sostenevano, intelligentemente, che legalizzando la marijuana si sarebbe potuto imporre una tassa sul consumo, la quale avrebbe contribuito a risanare le disastrate casse dello stato californiano. Il referendum è stato sconfitto con il 46.5% dei voti contro il 53.5%, ma alcune città, come Sacramento e San Jose, hanno approvato ugualmente una tassa sulle rivendite di marijuana, i "recreational pot businesses".  

    Yoga & Cannabis: pura California
    Uno dei motivi della sconfitta del referendum pare sia stata la decisione del governatore Schwarzenegger, decisione presa appena un mese prima del referendum stesso, di depenalizzare l'uso di marijuana, facendolo passare da "misdemeanor" a "civil infraction": semplice infrazione non processabile, che comporta una multa fino a 100$ (come una multa per eccesso di velocità, si diceva). La multa in realtà c'era anche prima, ma la chiave di questa nuova legge è l'abolizione del processo: Schwarzenegger ha sostenuto, firmandola, che avrebbe risparmiato notevoli spese alle casse dello stato in un periodo di drastici tagli al bilancio. La verità, forse, è che il governatore non ha affatto abbandonato le speranze di candidarsi a presidente della nazione (cosa che, come è noto, richiederebbe l'abolizione della legge che proibisce ai cittadini nati fuori dagli Usa di diventare presidente), e la prospettiva di venire identificato come "il governatore che ha legalizzato la marijuana" non deve essergli sembrata particolarmente allettante.


    domenica 20 febbraio 2011

    Intervista a Paula Fox

    Una bella intervista di Valentina Pigmei a Paula Fox, autrice che da noi meriterebbe di essere più conosciuta.

    "Nessuna donna felice ha mai scritto un libro, ha detto una volta una scrittrice americana oggi fortunatamente dimenticata. Prima di incontrare Paula Fox nella sua casa di Brooklyn, dove vive con il terzo marito, pensavo fosse vero. Poi ho visto questa ottantacinquenne bella e spartana muoversi nel suo giardino, nella sua cucina piena di foto-ricordo. E pensare che quando scrive la Fox sembra possedere un bisturi affilato, maestra di quello stile 'chirurgico' tanto amato dagli scrittori delle nuove generazioni, in primis Jonathan Franzen. Unsentimental, dicono i suoi connazionali. Nonostante l’infanzia 'mostruosa', come confessa senza eufemismi, gli abbandoni, i matrimoni sbagliati, oggi Paula sembra contenta della sua vita. A sedici anni ha fatto l’operaia e la cameriera, a venti la reporter nell’Europa del dopoguerra, poi la modella per Harper’s Bazar, la lettrice di soggetti a Hollywood ('mi pagavano 8 $ dollari a sceneggiatura'), la comparsa. 'Tesoro morale e letterario degli Stati Uniti d’America', è stata definita di recente, proprio lei che non è mai stata troppo delicata nel criticare il suo paese, complice forse il sangue materno cubano e spagnolo."

    Il resto dell'articolo qui:

    Beautiful Artists/2: Sandro Del Rosario, experimental filmmaker

    Sandro Del Rosario is an Italian born filmmaker who currently lives in LA (because he loves the weather*). His work has received numerous awards and has been screened worldwide, including the MOMA and the Lincoln Center in NY, the London Film Festival, the Rotterdam Film Festival and the Annecy Animation Festival. 

    Shortly after he got his MFA in Film/Video at CalArts, in 2001, Sandro completed his 16mm, b/w, experimental film L.City, which is an extremely beautiful and moving work of art. You can see a demo reel of it on Sandro's website: http://www.sandrodelrosario.com/

    Sandro is currently working on Lo Sguardo Italiano ("The Italian Gaze"), a unique 16mm animated experimental film made with thousands of oil painted photographs. As he writes in the blog http://losguardoitaliano.blogspot.com/ (where you can also watch a beautiful trailer) where he follows the progress of the movie, "Lo Sguardo Italiano is a unique, independent art/film project, that uses frame by frame animation (...) The estimated total number of frames needed to complete the film are about 5,000." The film has a direct link to the Artspire website (http://www.artspire.org/DirectoryDetail/tabid/95/id/376/Default.aspx), a new database of artists and projects linked with the New York Foundation of the Arts, where you can view another trailer and make a tax deductible donation to help Sandro's dream come true. "Lo Sguardo Italiano," writes Sandro, "is a short, animated film, which expresses the contrasting realities of contemporary Italy where I was born. I feel I must create a work, handmade and experimental, which will picture both the inherent beauty and history of my country and the anguish for its contemporary political, moral and economical decay. Words, live action and animation of oil painted landscapes as visual metaphors of my sentimental memory will be edited to express the two themes of the film: the rapture for the beauty and the aching for the destruction of this beauty. Lo Sguardo Italiano hopefully will be a poetic and lyrical work in experimental animation, and a true interdisciplinary work of art. The project began in 2005 in Italy during a residency at the Bogliasco Foundation in Genova, painting with oil pastels thousands of photos and stills from videos previously shot, one at the time. Those images will be filmed again in 16mm and video, frame by frame, recreating movements and transitions in animation. A script of my thoughts and reflections about Italy will be recorded and edited to appear intermittently with the images and sequences of gestures and close ups of my hands, materials and images. Like in a poem, there will be an open association between words and images, and some written text will be used as an integration of the audio."

    * Sandro would like me to add that he loves not only the weather, but the whole city.

    sabato 19 febbraio 2011

    Beautiful Artists/1: Damion Searls, writer and translator

    I've decided to start a series of posts on artists that I know and whose work I love. The first one, quite aptly, is the translator/writer Damion Searls.

    As you can read on his website http://www.damionsearls.com/, he is a translator from German, Norwegian, French, and Dutch and a writer in English. He has translated many of Europe's greatest writers, including Proust, Rilke, Robert Walser, Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, Kurt Schwitters, Peter Handke, Jon Fosse, and Nescio, edited a new abridged edition of Thoreau's Journal, and produced a lost work of Melville's. 

    The "lost work of Melville's" is called ; or The Whale, and was published in a special issue of the Review of Contemporary Fiction, Summer 2009. This how the story goes (but you can find more on his website): "In 2007, Orion Books produced Moby-Dick in Half the Time, a Compact Edition 'sympathetically edited' to 'retain all the elements of the originals: the plot, the characters, the social, historical and local backgrounds and the author's language and style.'"
    ; or The Whale is an abridgment that preserves the elements missing from that list—digression, texture, weirdness—by keeping every chapter, word, and punctuation mark of Melville's original Moby Dick; or The Whale.
    Here's a cover story about it published by The Believer magazine:

    Searls' fiction includes a collection of short stories, What We Were Doing and Where We Were Going, where he "takes short stories by Nathaniel Hawthorne, André Gide and others as a point of departure, deviating from them to produce a bewitching snapshot of modern life." (From The Guardian.) You can hear Searls reading an excerpt here: http://www.guardian.co.uk/books/audio/2009/jul/21/guide-to-san-francisco-damion-searls)

    And last but not least, besides having translated many important authors, Searls also rediscovered (and translated) Hans Keilson, author of masterpieces as The Death of the Adversary and Comedy in a Minor Key (read a review by Francine Prose here: http://www.nytimes.com/2010/08/08/books/review/Prose-t.html?_r=1)

    venerdì 18 febbraio 2011

    If you're so smart, why ain't you rich?

    America is the wealthiest nation on Earth, but its people are mainly poor, and poor Americans are urged to hate themselves. To quote the American humorist Kin Hubbard, “It ain’t no disgrace to be poor, but it might as well be.” It is in fact a crime for an American to be poor, even though America is a nation of poor. Every other nation has folk traditions of men who were poor but extremely wise and virtuous, and therefore more estimable than  anyone with power and gold. No such tales are told by the American poor. They mock themselves and glorify their betters. The meanest eating and drinking establishment, owned by a man who himself is poor, is very likely to have a sign on its wall asking the cruel question: "If you are so smart, why ain't you rich?” 
    (Kurt Vonnegut, "Slaughterhouse-Five")



    San Francisco Minimum Wage


    Questa l'ho scattata stamattina sull'autobus. Ve l'immaginate un cartello del genere su un autobus italiano?

    La via americana alla formazione dei giovani scrittori

    Ripubblico qui un articolo che scrissi qualche anno fa per il manifesto. Oggi probabilmente le cose sono un po' cambiate ("in this economy", come dicono qui), ma il modello è rimasto più o meno invariato.

    La via americana alla formazione dei giovani scrittori

    La carriera dell'aspirante narratore comincia spesso tra le pagine delle molte riviste letterarie che a ritmo continuo nascono e muoiono. E le elevate rette universitarie servono anche a finanziarle, nella speranza che promuovano il talento degli studenti
    Molte le colonie per artisti, tra cui la storica Yaddo, fondata nel 1926, che ricevette in eredità tutto il patrimonio di Patricia Highsmith. Nella storica dimora immersa nei boschi di Saratoga Springs si ritrovano insieme scrittori, compositori e visual artists

    di SILVIA PARESCHI
    Incastrati fra un provincialismo succube del mito americano e il rifiuto aprioristico di concedere alla cultura statunitense la stessa dignità di quella europea, in Italia rischiamo di perdere di vista i reali contorni di una situazione vivace e piena di fermento come quella artistica e culturale americana. L'ambiente letterario newyorchese può fornire un quadro abbastanza preciso, anche se limitato nello spazio, delle condizioni in cui si sono formati molti dei giovani scrittori statunitensi che oggi si pubblicano in grande abbondanza sul mercato italiano. Che in America si studi scrittura creativa è un fatto risaputo, non c'è bisogno di tirare in ballo John Gardner, Raymond Carver e i loro emuli «holdeniani», e neppure le scontate critiche sull'howtoism statunitense. È vero, gli americani sono ottimisti, faciloni, pragmatici e nello stesso tempo idealisti, e credono che con un po' di buona volontà si possa imparare tutto. Anzi, con un po' di buona volontà e parecchi soldi, visto che i programmi di scrittura creativa delle università costano spesso più di 25000 dollari l'anno solo per le tasse scolastiche, cifra che può tranquillamente raggiungere, per esempio nel caso di uno studente della Columbia, un totale di 60000 dollari. Per i più meritevoli e meno abbienti esistono le borse di studio, oppure c'è sempre la possibilità di chiedere un finanziamento che copra le spese universitarie. Entrambe queste opzioni presentano i vantaggi e gli svantaggi tipici del capitalismo «meritocratico» americano: da un lato viene posto uno sbarramento basato sul reddito, e dall'altro si fornisce una possibilità di riuscita a chi ha la capacità e la volontà di impegnarsi. Di impegnarsi, s'intende, molto più di coloro che sono già ricchi in partenza: solo così è possibile tentare di superare l'enorme ostacolo rappresentato da una condizione economica disagiata.

    Gli intellettuali americani sono spesso i primi a scagliarsi contro il sistema delle scuole di scrittura, affermando che non si può insegnare il talento (questione annosa e ben nota anche ai loro omologhi nostrani), e che queste istituzioni rappresentano l'ennesimo esempio di sfruttamento a scopo di lucro dell'ingenuità altrui. Ogni tanto, però, succede che qualche studente di scrittura creativa cominci a scrivere sul serio. Certo, avrebbe potuto mettersi a scrivere anche senza frequentare un corso (e magari senza indebitarsi), ma il fatto di averlo frequentato gli fornisce diversi vantaggi: una maggiore consapevolezza delle proprie capacità, una rete di contatti con una folta comunità di persone che hanno i suoi stessi problemi e obiettivi, e, non ultimo, il sostegno dei professori, il cui compito non si esaurisce nell'insegnamento, ma prevede anche un aiuto attivo nella ricerca di agenti, borse di studio ed editori.

    Il giovane scrittore comincia spesso la propria carriera nell'ambito di una delle innumerevoli reviews, le riviste letterarie che nascono (e muoiono, purtroppo, come la bellissima Grand Street) un po' ovunque. Oltre alle più famose, come McSweeney's di Eggers, Zoetrope di Coppola, Granta (pubblicata sia a Londra che a New York) e la storica Paris Review (sopravvissuta, grazie al forte sostegno di pubblico e scrittori, alla morte di George Plimpton, il carismatico direttore/fondatore che guidò la rivista per cinquanta anni esatti, dal 1953 al 2003 ), ci sono Bomb Magazine, The Literary Review, The Mississippi Review, New American Writing, Brick e mille altre ancora: riviste a orientamento «etnico» come l'African American Review e la Afro-Hispanic Review, riviste politiche come la Blue Collar Review, e le numerosissime riviste finanziate dai dipartimenti di scrittura creativa delle università, come Black Cock del California Institute for the Arts o la Sonora Review dell'Università dell'Arizona, che ha avuto fra i membri della propria redazione David Foster Wallace.

    C'è persino una Translation Review curata dalla University of Texas di Dallas. Fin qui, dunque, l'«America profonda» ha poco da invidiare alle grandi città costiere. E infatti il più importante programma di scrittura creativa degli Stati uniti è lo Iowa Writer's Workshop, da cui sono usciti, oltre a Carver, scrittori del calibro di Flannery O'Connor, John Irving e T. Coraghessan Boyle. Insomma, nella gamma di riviste che va dalla review dell'università fino all'ambìto approdo del New Yorker si direbbe che ci sia spazio per (quasi) tutti. Non è tutto oro quel che luccica, naturalmente: persino le riviste più importanti hanno difficoltà a far quadrare il bilancio, e sono ben poche quelle che riescono a sostentarsi solo grazie alle vendite. Gli sponsor, oltre alle università, sono di solito mecenati miliardari, come nel caso di Zoetrope, di Paris Review, e anche di Grand Street, che ha chiuso i battenti proprio perché la sua mecenate si era stancata di ricevere una fattura di un milione di dollari l'anno. Inoltre, è chiaro che la decisione di promuovere un certo tipo di cultura anziché un'altra dipende più dai gusti e dalle priorità di facoltosi privati che non da una politica generale del governo, e quindi non si tratta certo di una decisione di tipo «democratico». Ma tutto sommato, si tratta di un sistema non privo di lati positivi. Le rette elevate delle università servono anche a finanziare la pubblicazione di riviste che, auspicabilmente, metteranno in luce il talento degli studenti; inoltre, il fatto che alcuni miliardari riversino una parte del proprio denaro in imprese culturali a fondo perduto la dice lunga sul prestigio sociale derivante dal sostegno alla cultura (e non solo in contesti che garantiscano un ritorno di immagine altisonante, come avviene dalle nostre parti). La strada per la pubblicazione, infine, non passa solo tramite conoscenze «introdotte» e mentori più o meno illustri. Una rivista abbastanza diffusa, Bomb Magazine, secondo quanto afferma la managing editor Lucy Raven, sceglie così i brani da pubblicare nella sezione letteraria: «ogni giorno riceviamo parecchi manoscritti di autori sconosciuti... i nostri collaboratori li leggono tutti e scelgono quelli più adatti alla rivista, basandosi sulla qualità della scrittura ma anche sulla ricerca di narrazioni di tipo sperimentale, non tradizionale. Cerchiamo di pubblicare uno di questi manoscritti in ogni numero, insieme ai brani inviati da agenti letterari, conoscenti e studenti dei nostri collaboratori».

    Ma proseguiamo sulle orme del nostro giovane scrittore, che prima o poi riesce a pubblicare i primi racconti su una rivista abbastanza diffusa e a far circolare il proprio nome. Mentre si cerca l'indispensabile agente (che spesso svolge anche il ruolo di mentore), la sua rete di contatti continua a espandersi. Soprattutto se vive in città, può cominciare a tenere qualche reading. A New York, gli scrittori leggono non soltanto nelle librerie (dai mega-bookstores come Barnes & Noble a luoghi più accoglienti come lo Housing Works Used Books Cafe, frequentato da autori come Rick Moody e Art Spiegelman e collegato a un'organizzazione no-profit che fornisce servizi ai malati di Aids), ma anche in bar come il Kgb, locale «a tema comunista» che ospita la scena letteraria «hip» - scrittori emergenti e autori affermati come Michael Cunningham e Augusten Burroughs - oppure in altri luoghi pieni d'atmosfera, che oltre a readings ospitano anche eventi teatrali, mostre e concerti, come il Nuyorican Poets Café (leggendari i suoi poetry slams del venerdì sera), Dixon Place (nato nel 1986 con l'intento di «sostenere il processo creativo presentando lavori originali di teatro, danza e letteratura a ogni stadio di sviluppo», e attualmente alloggiato una stanza piccola e buia, piena di poltrone scompagnate che sembrano provenire dai magazzini dell'Esercito della Salvezza), e il Cornelia Street Café, dove spesso si ritrovano a leggere i membri della Writers Room, un'organizzazione che fornisce (dietro pagamento di una quota annua) uno spazio per lavorare in tutta tranquillità a circa duecento scrittori sia emergenti che affermati.

    La Writers Room si definisce «An Urban Writers' Colony in New York City». In effetti, negli Usa le «colonie» per artisti sono moltissime, almeno un centinaio, sparse un po' ovunque in tutti gli stati. Le artists' colonies sono istituzioni finanziate ancora una volta da ricchi mecenati, che detraggono le spese di beneficenza dalla dichiarazione dei redditi. Si trovano di solito in luoghi molto belli, dove artisti di diverse discipline e diverse parti del mondo vengono ospitati per periodi variabili (che vanno di solito dalle due settimane ai due mesi, ma possono essere anche più lunghi), in alcune (la maggior parte) gratuitamente, in altre dietro pagamento di una cifra più o meno simbolica. Alcune passano addirittura un piccolo stipendio, pagano le spese di viaggio oppure offrono borse di studio ai meno abbienti. Cosa si fa in una colonia? Si lavora ai propri progetti. Lo scopo di questi luoghi è semplicemente fornire agli artisti un ambiente «protetto» dove lavorare lontani dalle distrazioni della vita quotidiana. È facile prendere gusto alla vita che si conduce in questi piccoli paradisi, tanto che esiste un soprannome, colony hopper, per indicare chi trascorre intere stagioni passando da una colonia all'altra.

    Ogni colonia ha le sue caratteristiche e le sue regole. Art Omi/Ledig House, per esempio, una colonia non molto grande ma con un'ospitalità squisita sotto ogni punto di vista - dalla simpatia dello staff alla bravura dei cuochi Tommy e Rita - ha diverse sessioni, due per gli scrittori (in primavera e autunno), una per i musicisti e una per i visual artists. Si concentra su artisti provenienti da diverse parti del mondo, a cui dà la possibilità di lavorare nel gradevole paesaggio delle colline della valle dell'Hudson e di intrattenere interessanti conversazioni conviviali con colleghi di tutti i continenti. Durante il fine settimana arrivano da New York editor e agenti per discutere con gli ospiti stranieri del funzionamento del mercato editoriale americano e, talvolta, per scoprire qualche nuovo talento da pubblicare (anche se negli Stati uniti la percentuale di libri tradotti da altre lingue è molto bassa). La storica Yaddo, fondata nel 1926 e ricchissima delle storie di tutti i personaggi famosi che vi hanno soggiornato (una fra le tante, Patricia Highsmith, che era stata ospite una sola volta, lasciò in eredità tutto il suo patrimonio alla venerabile istituzione), è invece frequentata per la maggior parte da americani, provenienti soprattutto dalla non lontana New York. Le sessioni sono miste, vale a dire che scrittori, compositori e visual artists si ritrovano tutti insieme nell'austera magione immersa nei boschi di Saratoga Springs, dove si intrecciano amicizie e antipatie, conversazioni, readings di opere in via di realizzazione e serate di open studios.

    Non occorre essere famosi per ottenere una fellowship (anche se un posto come Yaddo ha sempre qualche fiore all'occhiello in ogni sessione): basta aver pubblicato/composto/esposto qualcosa (di importanza e successo variabili, a seconda delle colonie) e avere un progetto in corso. Le colonie letterarie non sono solo appannaggio degli Stati Uniti, anzi, si trovano praticamente in tutto il mondo (la più ambìta, con lunghe liste d'attesa, è sicuramente la Sacatar Foundation, che si trova sull'isola di Itaparica di fronte a Salvador de Bahia).

    In Europa ce ne sono parecchie, e persino l'Italia ne ospita qualcuna (tre, a quanto mi risulta), che però sono finanziate da fondazioni americane e frequentate per lo più da stranieri: la Civitella Ranieri Foundation a Umbertide, il Liguria Study Center di Bogliasco e il Bellagio Center della Rockefeller Foundation. A Procida esisteva il Collegio dei Traduttori Letterari, che però adesso è chiuso per mancanza di fondi. Mi piacerebbe sbagliarmi, ma credo che non esistano fondazioni italiane che finanziano istituzioni di questo genere.

    I corsi di scrittura creativa, il proliferare di riviste letterarie, l'esistenza di luoghi dove discutere, lavorare e confrontare le proprie esperienze: tutto questo denota una considerazione del lavoro intellettuale molto diversa rispetto a quella europea e soprattutto italiana. Negli Usa lo scrittore è ritenuto una persona che svolge un mestiere accessibile - con i dovuti sforzi e sacrifici di cui il vero sogno americano non può mai fare a meno - più o meno a tutti. Nessuno nega l'importanza del talento, ma la cosa più rilevante è che negli Stati uniti il lavoro intellettuale non è esclusivo appannaggio di un'élite che può vivere di rendita, ma è considerato una professione (e come tale viene remunerato).

    Insomma, la «via americana» alla produzione culturale, pur rivelandosi carente proprio dal punto di vista dell'uguaglianza e della democrazia - ossia degli ideali che un tempo costituivano la base dell'American Dream - rimane un modello alternativo a quello europeo, un modello che ha il vantaggio di riuscire, tutto sommato, a stimolare e valorizzare l'intelligenza e la creatività delle persone.
    (pubblicato su il manifesto del 21/1/2005. Il link purtroppo non si trova).

    Books 4 Vijecnica: libri per la biblioteca di Sarajevo.


    L´organizzazione “Humanity in Action Senior Fellow Network”, da Sarajevo ha lanciato l’ appello “Books 4 Vijecnica” per rinnovare il fondo bibliotecario della biblioteca universitaria e nazionale della BiH, conosciuta come Vijecnica. Il 25 agosto 1992 la Vijecnica fu bombardata e nel rogo sono andati persi un milione e mezzo dei libri, rari manoscritti e documenti. S´invitano tutti coloro che desiderino sostenere l’iniziativa, ad inviare non soldi ma due volumi. Un libro in qualsiasi lingua del mondo, per le seguenti materie: medicina, legge, economia, letteratura, l’arte e filosofia e un altro nella lingua materna dei donatori con contenuti specifici legati alla sua regione, alla gente di quel paese, o altri libri che si ritengano socialmente utili. I libri, bisognerà mandarli al seguente indirizzo: University of Sarajevo – Campus Zmaja od Bosne, bb. 71000 Sarajevo, Bosna i Hercegovina .
    Qui il link:
    http://www.books4vijecnica.com/index.html


    “Tutta la città era ricoperta di pezzi di carta bruciata. Volavano in aria le pagine fragili di carta bruciata, cadendo giù come neve nera. Afferrandola, per un attimo fu possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere”, cosi si ricorda di quei giorni dr. Kemal Bakaršić, il bibliotecario. 
    Il resto del bell'articolo di Azra Nuhefendic, pubblicato su Nazione Indiana, qui:
    http://www.nazioneindiana.com/2008/11/21/a-gamba-tesa-nessuno-tocchi-la-biblioteca-di-sarajevo/ 

    giovedì 17 febbraio 2011

    Assange against Zuckerberg


    While Italy is waiting for some new secret files from Wikileaks, here's the Assange versus Zuckerberg parody on Saturday Night Live, which includes the memorable line: "I give you private information on corporations for free, and I'm a villain. Mark Zuckerberg gives your private information to corporations for money, and he's Man of the Year."

    Scuole pubbliche e radical chic

    Questa è una città estremamente radical chic: molto liberal, certo, ma anche molto ricca e molto bianca, e gli esempi di ipocrisia si sprecano. Ieri sera, per esempio, siamo usciti con un’anziana coppia, lui urbanista e lei demografa, collezionisti di arte russa contemporanea. Si parlava, fra l'altro, delle condizioni penose in cui versano le scuole pubbliche in California, e loro ci hanno raccontato un aneddoto illuminante. Una sera, tanti anni fa, vennero invitati a un cocktail party in una casa di ricchissimi superprogressisti, e tra un drink e l’altro gli invitati cominciarono a parlare delle scuole che frequentavano i loro figli. I nostri due amici, coerenti con le loro idee, avevano mandato i loro cinque figli alla scuola pubblica di Richmond, una di quelle scuole dove oggi i ragazzini entrano armati, per intenderci (naturalmente a quei tempi, trenta-quarant’anni fa, la situazione non era così tragica). Ben presto però si accorsero che non solo tutti gli altri ospiti, progressisti di ferro e infaticabili paladini dell'istruzione pubblica, mandavano i figli in costose scuole private, ma oltretutto li guardavano con raccapriccio per la loro scelta così anticonformista. "Allora chiedemmo: ‘ma se siete tanto favorevoli alle scuole pubbliche, perché mandate i vostri figli in quelle private? Fu così che scoprimmo che avevano tutti dei figli molto sensibili..."

    mercoledì 16 febbraio 2011

    Visita medica per la green card - prima parte.

    Foto da qui
    Per richiedere la green card occorre un certificato rilasciato dal Civil Surgeon, termine antiquato che designa il medico autorizzato dal governo a fornire questo tipo di servizio. Dopo aver scoperto che il CS consigliato dall’avvocato era stato sospeso dall’incarico pochi giorni prima, in seguito all’accusa di malpractice (cioè di aver fatto fuori qualche paziente), abbiamo cercato il centro medico più economico della città e ieri siamo andati a fare la visita medica. Il centro, essendo economico, si trova ovviamente in una parte remotissima della città, che abbiamo raggiunto prendendo un autobus da Chinatown. Dopo un viaggio di mezz’ora in piedi, su un autobus pieno di cinesi (li ho guardati bene, i passeggeri: erano TUTTI cinesi) e con il solito autista folle convinto di essere a Indianapolis (anche lui cinese, ovviamente), arriviamo nel remotissimo quartiere (cinese) ed entriamo nel centro medico cinese. Qui l’infermiera mi fa entrare, mi misura peso e altezza, mi chiede se fumo e poi mi infila in uno stanzino e mi dice di aspettare. Dopo quarantacinque minuti di attesa arriva il dottor Li, che si scusa per il leggero ritardo e comincia a guardare il mio certificato delle vaccinazioni. Non va bene, mi dice. Manca il richiamo dell’antitetanica (ha ragione, mea culpa), ma quello me lo può fare subito. E poi devo fare il vaccino MMR: measles, mumps and rubella (morbillo, orecchioni e rosolia). E poi chickenpox, la varicella. Ah, no, quella almeno l’ho fatta, da piccola. È sicura? Certo che sono sicura, rispondo. E il MMR? Devo proprio vaccinarmi contro tutta quella roba, alla mia età? Eh, sì, non c’è niente da fare, quelli dell’Immigration sono molto severi. Intanto mi può prescrivere un test (a pagamento, of course) per vedere se sono immune a tutte quelle malattie infantili, e se non lo sono, la prossima volta mi dovrà vaccinare. (Nel frattempo mi par di sentire un rumore di suzione proveniente dal mio portafogli). Io gli dico che ho una certa fretta di ottenere i suoi certificati e cominciare le pratiche, visto che per ottenere l’Advance Parole (l’inquietante nome del permesso di viaggio) ci vogliono almeno tre mesi, e già temo che perderò il mio biglietto di ritorno per l’Italia. A quel punto il dottor Li mi consiglia di venderlo su eBay. Bene, penso. La mia pratica è nelle mani di uno che mi consiglia di vendere un biglietto aereo su eBay. Poi viene il momento della visita, cinque minuti in cui mi ausculta cuore e polmoni, mi fa stare in piedi a occhi chiusi con le mani in avanti e poi mi chiede se mi drogo, se sono depressa e se sono psicotica. Soddisfatto delle mie risposte, se ne va e manda dentro un’infermiera. Questa mi fa il test della tubercolosi e il richiamo dell’antitetanica. Devo tornare fra tre giorni, mi dice, altrimenti la prova della tubercolosi scade e la devo rifare. Se mi troveranno negativa bene, altrimenti… non ci voglio neanche pensare. Poi, esco, aspetto che mi richiamino di nuovo e vado in un altro stanzino a fare le analisi del sangue. Poi esco, imploro la receptionist di farmi avere tutti i risultati prima possibile e infine chiedo il conto. Duecentonovanta dollari. E non è ancora finita.