martedì 29 marzo 2011

Un'intervista alla sottoscritta

Pubblicato oggi su minima & moralia:

Silvia Pareschi racconta l’esperienza di tradurre Jonathan Franzen. Estratto di un’intervista pubblicata su Studio, bimestrale di approfondimento culturale, fresco di uscita.
Lo scorso settembre, sulla scia delle prime critiche a Freedom, ho sentito il bisogno di rileggere Le correzioni. Nonostante lo avessi amato moltissimo, non mi era più capitato di leggere Franzen, fatta eccezione per qualche saggio. A parte confermare l’entusiasmo provato anni prima, la rilettura aveva messo in moto altro. Nel giro di un paio di giorni, due persone ignare l’una dell’altra e ignare della mia rilettura in corso, senza che avessi mai parlato di Franzen con loro, mi hanno spontaneamente fatto sapere di aver conosciuto la sua traduttrice italiana. Chiunque di noi nella propria vita avrà sicuramente fatto esperienza di coincidenze ben più straordinarie di questa, che nel suo piccolo è stata sufficiente a farmi provare il desiderio di conoscere Silvia Pareschi, nella speranza di capire meglio alcune cose della scrittura di Franzen che rivestono per me (e ovviamente non solo) una certa importanza.
Al momento dell’intervista, autunno 2010, Silvia era a San Francisco dove vive per metà dell’anno insieme al suo compagno, l’artista e scrittore Jonathon Keats (di cui ha tradotto Il libro dell’ignoto, uscito a dicembre per Giuntina, N.d.R.). Quando l’ho contattata ho scoperto che stava terminando la prima stesura di Freedom: l’oggetto su cui volevo interrogarla era lì, aperto sul suo tavolo.
Oltre a Franzen, Silvia ha lavorato sulle opere di molti autori, tra cui Denis Johnson, Don De Lillo, Junot Diaz, Nathan Englander, Alice Munro, Cormac McCarthy, per nominare solo i più importanti. Ma con Franzen, ha dichiarato, ha un rapporto speciale.

Potete leggere l'intervista qui.

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