domenica 30 dicembre 2012

Qualcosa di bello: un blues da New Orleans

Ok, il tema è ancora cupo, però la musica è bella. E il giovane e talentuoso Luke Winslow King, malgrado il vestito e la pettinatura un po' da sistemare, ha una splendida voce e anche il resto non è niente male. Il brano, Ella Speed, è una vecchia folk song basata su un fatto realmente accaduto in un bordello di New Orleans nel 1894 (qui trovate tutta la storia), ed è stata cantata, fra gli altri, da Lead Belly e dal "Texas songster" Mance Lipscomb. Enjoy.


venerdì 28 dicembre 2012

Word of the month: Gundamentalist

Da qui.

Gundamentalist: A person who goes beyond the language of the Second Amendment to the U.S. Constitution and takes his or her unrestricted right to bear arms as a tenet of religious or quasi-religious faith. A portmanteau of “gun” and “fundamentalist.”

(Grazie Licia)

giovedì 27 dicembre 2012

Quote of the day: David Foster Wallace

"Nella cultura americana, o comunque nell'Occidente industrializzato, c'è sempre stato un caratteristico e fortissimo disgusto per la frustrazione e la sofferenza [...] In moltissime altre culture se uno soffre, se ha un sintomo che lo fa soffrire, questo viene sostanzialmente interpretato come qualcosa di sano e naturale, un segnale del fatto che il sistema nervoso sa che c'è qualcosa che non va. Per queste culture, liberarsi dal dolore senza affrontarne la causa profonda sarebbe come spegnere il campanello d'allarme mentre l'incendio divampa ancora. Ma se soltanto guardiamo la miriade di modi in cui in questo paese ci sforziamo all'impazzata di alleviare quelli che sono semplici sintomi - dalle pasticche contro il mal di testa a effetto ultrarapido alla popolarità dei musical spensierati durante la Depressione - si vede una tendenza quasi compulsiva a identificare il dolore in sé con il problema."

Dall'intervista di Larry McCaffery a D.F. Wallace, realizzata per la Dalkey Archive Press nel 1993. Citata nel saggio "Brevi interviste con uomini schifosi: i doni difficili di David Foster Wallace", in Cambiare idea, di Zadie Smith, traduzione di Martina Testa.

domenica 23 dicembre 2012

Revisionismo natalizio: dove nacque Gesù?

"Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo." (Luca 2:4-7)
Foto da qui
Questo è il resoconto evangelico della nascita di Gesù. Gli storici lo hanno studiato per capire meglio come sono andate le cose: ho trovato particolarmente interessante una teoria che rivelerebbe la presenza di un errore di traduzione nel testo evangelico. 
Innanzitutto, Luca non dice che Giuseppe e Maria arrivarono a Betlemme giusto in tempo per il parto. Anzi, sembrerebbe strano che avessero deciso di intraprendere il lungo viaggio da Nazaret nell'ultima fase della gravidanza, e Luca lo conferma quando scrive "Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto". 
Poi c'è la famosa questione dell'albergo/stalla. Nel Vangelo non c'è nessun oste che dice a Giuseppe e Maria che la sua locanda è piena. Il motivo per cui questa scena è entrata nella tradizione è che in genere i traduttori hanno scelto la parola "albergo" per tradurre la parola greca καταλυμα (kataluma), che significa anche “riparo”, “zona notte”, oppure indica una camera in una casa privata. Inoltre lo stesso Luca, in 10:34, usa una parola diversa per indicare "albergo", quando scrive che il Buon Samaritano accompagna alla "locanda" (πανδοχειον, pandocheion) l'uomo aggredito dai briganti. E poi Giuseppe era originario di Betlemme, e sembrerebbe strano che la sua famiglia si fosse rifiutata di ospitare la moglie in travaglio. 
Insomma, Giuseppe e Maria tornarono a Betlemme per via del censimento (Luca 2:1-4), e visto che la casa della famiglia di Giuseppe era affollata di parenti e la camera degli ospiti (kataluma) era occupata, vennero mandati a dormire al piano inferiore della casa, dove spesso venivano ricoverati gli animali per proteggerli dal freddo. Ed ecco qui il presepe. Niente bue e asinello (e niente grotta), che non sono citati in nessun vangelo canonico ma appartengono a una tradizione risalente a san Francesco d’Assisi. Maria probabilmente diede alla luce Gesù al piano inferiore della casa della famiglia di Giuseppe, poi avvolse il bimbo in fasce e lo depose in una mangiatoia (anche l'uso della mangiatoia come culla era piuttosto diffuso, all'epoca).

Per un'altra storia sugli errori di traduzione nella Bibbia, si veda il post Il traduttore che scambiò una corda per un cammello.

venerdì 21 dicembre 2012

Due grandi traduttrici e un capolavoro: Susanna Basso intervista Anna Nadotti

Avevo parlato della traduzione di La signora Dalloway a cura di Anna Nadotti qui e qui.

Qualche tempo fa è uscita sulla rivista Tradurre un'intervista della grande traduttrice Susanna Basso alla grande traduttrice Anna Nadotti. Ne riporto un brano, ma vi consiglio di leggerla tutta.


Di quale pagina, tratto, effetto stilistico o singole parole sei più orgogliosa?

Mi rendo conto che per rispondere in modo soddisfacente alla tua domanda avrei bisogno di molto tempo, di tutto il tempo, perché sfogliando il mio diario di traduzione ritrovo traccia di molti ragionamenti, ripensamenti e anche contraddizioni – forse inevitabili per chi traduce. Ci vedo luci e ombre. Ci vedo tutta l’ansia, e il sollievo e la gioia per le soluzioni trovate. Ci vedo infiniti puntini di sospensione… tu dai voce a me, io do voce a te… questo sembrano dirsi chi scrive e chi traduce. E sembra esserci un patteggiamento continuo.
Mi domando se il primo patteggiamento non sia in realtà tra la lettrice che c’è nella traduttrice, e l’autrice/autore. C’è in chi legge un’attesa più robusta, più sostenuta e gratuita che in chi traduce. Credo che solo se questa attesa è soddisfatta possa nascere una grande opera di traduzione. Ma vengo, almeno provo, alla domanda.
Ri-traducendo un capolavoro come Mrs Dalloway, ci si ritrova volenti o nolenti a fare i conti anche con le traduzioni preesistenti. Non solo in sé, ma per ciò che hanno determinato nel formarsi di un canone, di una tradizione. Mi sono interrogata molto su questo, è stata una delle cose più faticose.
Ti faccio un esempio che mi sta a cuore. A p. 38 (edizione Penguin Classic) Woolf scrive: Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips. Nella versione di Alessandra Scalero – l’unica esistente dal 1946 al 1993, quando uscì la traduzione di Nadia Fusini per Feltrinelli, e perciò la versione letta da varie generazioni di lettrici italiane – leggiamo: «Sally si fermò, spiccò un fiore, lo portò alle labbra e lo baciò».
E questo sarebbe stato the most exquisite moment dell’intera vita di Clarissa Dalloway?
Una svista? Un’autocensura? Una censura editoriale?
Le cose andarono diversamente:

Lei e Sally restarono un po’ indietro. Venne allora, passando accanto a un’urna piena di fiori, il momento più perfetto della sua vita. Sally si fermò, raccolse un fiore, la baciò sulle labbra. Fu come se il mondo si fosse capovolto! Gli altri scomparvero, e lei era lì sola con Sally. Ebbe la sensazione di aver ricevuto un regalo, ben incartato, con la raccomandazione di non aprirlo, di non guardarlo – un diamante, qualcosa di infinitamente prezioso,… (mia versione, p. 36).
Inutile dire che la traduzione di Nadia Fusini ha riportato sulla pagina il desiderio tra Sally e Clarissa, tuttavia la critica non ha mai messo a tema il fatto che per mezzo secolo Sally ha baciato un fiore, anziché l’amica Clarissa.
Restituire Sally e Clarissa a se stesse, vederne e ospitarne in traduzione i molteplici sguardi e desideri… non si è mai sole quando si traduce. Aggiungerei che è anche un «modo per cominciare a ragionare su una, radicalmente diversa, economia di condivisione». Sono parole di Nerina Milletti, in un saggio molto interessante, Poetiche e politiche lesbiche, sul formarsi di un canone letterario, che si può leggere in Poetiche politiche. Narrative, storie e studi delle donne, a cura di Cristina Bracchi (Il Poligrafo, Padova 2011).
Un altro termine su cui vorrei soffermarmi è crime: Next, there is no crime, dice fra sé Septimus, «il primo degli uomini chiamato a udire la verità, ad apprendere il significato» (p. 74, ma il termine ritorna alle pagine 99 e 105-108). Sia Scalero che Fusini traducono con «male», «il male non esiste»: una frase famosa, molto citata. Ma Septimus è appena tornato dalla guerra, dalla terra di nessuno dove gli amici esplodono al tuo fianco e i pezzi del loro corpo ti soffocano e ti annichiliscono. Septimus è l’uomo «recentemente portato dalla vita alla morte», perché è una morte giacere sulla panchina del parco «come un copriletto, una coperta di neve che il sole non scioglieva, per sempre integro, per sempre sofferente, il capro espiatorio, l’eterna vittima».
Non siamo nella sfera metafisica o religiosa del «male», a mio avviso. La guerra è il prodotto di scelte umane sbagliate, convulse, violente, è un «crimine» che si ripete. «Tutte le mie belle piazze scomparse» scriverà Woolf nel 1941, e sarà un’altra guerra, un altro crimine ad averle distrutte. Sembra di sentirlo, il dolore di chi in Dalloway scrive:

Non era bellezza pura e semplice – Bedford Place che porta a Russell Square. Erano la linearità e il vuoto naturalmente, la simmetria di un corridoio, ma erano anche finestre illuminate, un pianoforte, un grammofono che suonava; un senso di celato generare-piacere, che tuttavia di tanto in tanto emergeva quando, attraverso finestre prive di tende, finestre lasciate aperte, si vedevano gruppi di persone sedute a tavola, gente giovane che si aggirava con calma, conversazioni tra uomini e donne, cameriere che si affacciavano pigramente (insolito gesto il loro, a lavoro finito), calze messe ad asciugare su un cavalletto, un pappagallo, qualche pianta. Avvolgente, misteriosa, infinitamente ricca, la vita. E nell’ampia piazza dove i taxi transitavano e svoltavano così veloci, coppie di innamorati si attardavano, amoreggiando, abbracciandosi, rincantucciati sotto le chiome di un albero. Una cosa commovente, erano così silenziosi e assorti che gli si passava accanto con discrezione, timidamente, come se ci si trovasse dinanzi a un rituale sacro che sarebbe stato empio interrompere.
Di tale empietà – ripetutamente commessa – il termine «crimine» dà conto: «… noi non siamo salvi / noi non salviamo / se non con un coraggio obliquo / con un gesto /di minima luce», ancora Antonella Anedda.
Qualche passo di cui sono orgogliosa? Mah! già ho citato tante cose. Fin dalla prima pagina ho tentato di affidare la narrazione ai rumori – i rumori nella mia lingua. Le pagine della festa mi sembravano una grandiosa melodia novecentesca. Spero che si senta. E poi, per via del cinema e della poesia, ti segnalo questi due:
Si metteva un cappello, e correva attraverso campi di grano – dov’era stato? – fin su un colle, in qualche posto vicino al mare, perché c’erano navi, gabbiani, farfalle; si erano seduti su uno scoglio. A Londra anche, si erano seduti, e, nel dormiveglia, le giungevano attraverso la porta della stanza da letto gocciolio di pioggia, bisbigli, fruscii fra le spighe di grano, la carezza del mare, tale a lei sembrava, che tutti li accoglieva nella sua conchiglia tornita e mormorava a lei distesa sulla riva, sparsa si sentiva, come fiori gettati su una tomba (p.150).
In tempi immemorabili – quando il selciato era erba, era palude, al tempo delle zanne e dei mammut, al tempo di silenziose aurore – quella derelitta, quella donna – poiché indossava una sottana – con la mano destra tesa, la sinistra stretta al fianco, cantava l’amore – l’amore che è durato milioni di anni, cantava, l’amore che trionfa, e milioni di anni addietro, il suo amante, defunto ormai da secoli, aveva passeggiato, canticchiava, insieme a lei in maggio; ma nel corso delle ere, lunghe come giornate estive, e fiammeggianti, ricordava, solo di aster rossi, se n’era andato; la falce gigantesca della morte aveva spazzato quelle favolose colline, e quando infine anche lei avrebbe posato la testa incanutita e immensamente invecchiata sulla terra, divenuta ormai solo un cinereo nevaio, implorava gli dèi di posarle accanto un fascio d’erica purpurea, lì sull’elevato tumulo che gli ultimi raggi del sole accarezzavano; perché allora la gran parata dell’universo avrebbe avuto fine (p.194).

giovedì 20 dicembre 2012

Le pistole di Santa Claus

Mentre Obama promette che presenterà presto una proposta sul controllo delle armi al Congresso, vorrei mostrarvi qualche altra immagine che documenta la pervasività della cultura delle armi negli Stati Uniti. Come si diceva nei commenti al post di ieri, è proprio da dettagli come questi che si comprende (?) meglio una cultura. Perché, come dice Michael Moore: “Certo, avere leggi più restrittive come in Giappone aiuterebbe, ma il Connecticut ne ha già una tra le più severe degli Stati Uniti. Immagino che avrebbe aiutato anche non aver chiuso l’ospedale psichiatrico di Newtown, nel 1995. Ma il padre dell’assassino ha abbastanza soldi per curare suo figlio. Abbiamo bisogno di leggi e cure psichiatriche. Ma anche questo non fermerà gli omicidi. Perché, diciamolo, l’America crede negli omicidi. Un paese che approva ufficialmente una terribile violenza (l’invasione dell’Iraq, i droni, la pena di morte) può sorprendersi quando un ragazzo di vent’anni fa lo stesso? Abbiamo creato l’America con un genocidio, l’abbiamo fatta crescere con gli schiavi. Gli spari continueranno: noi siamo questo. Perché queste cose succedono solo in America? La risposta è davanti a noi. E non sono le armi”.

Da Sociological Images. Pubblicità natalizie.

1939 (source)
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mercoledì 19 dicembre 2012

Ancora sulle armi negli Usa: gli zainetti antiproiettile e la rivincita di Dianne Feinstein

Da Mother Jones.  La ditta dal fantastico nome Amendment II vende tre modelli di zainetto antiproiettile. Il modello "Disney Princess" costa $300 più spese di spedizione. Dopo il massacro di Newtown, le vendite sono triplicate.

La BulletBlocker, invece, vende il delizioso "My Child's Pack" a soli $224.99.

 

Nell'articolo che vi segnalo troverete altri esempi di prodotti simili. "No more victims of school shootings!" promette la pubblicità di questo zaino.

Se poi volete un livello più alto di protezione, potete acquistare un pratico giubbotto antiproiettile per bambini in diversi colori a scelta, in vendita a soli $499 da Amendment II. Questo prodotto, però, "non è consigliato per l'uso quotidiano a scuola. Serve più che altro per quando portate i vostri piccoli al poligono di tiro, oppure a caccia con voi".




Per fortuna ieri sera ho visto una notizia che mi ha ridato un po' di speranza. La senatrice di cui si parla nel video, Dianne Feinstein, è un personaggio importantissimo nella recente storia della California. Forse alcuni di voi la ricorderanno dal film Milk: nel 1978 fu colei che per prima sentì gli spari e accorse nella stanza dove Dan White aveva appena ucciso Harvey Milk e il sindaco Moscone, e fu lei a dare l'annuncio dell'omicidio. Subentrò poi a Moscone come sindaco di San Francisco (unica donna sindaco finora), e venne poi rieletta nel 1979 e 1983. Tra gli altri fatti interessanti che la riguardano: favorevole al controllo delle armi, nel 1984 propose e vinse un referendum che vietava il possesso di pistole nella città di San Francisco. Negli anni '90 fu coautrice del bando sulle armi d'assalto, introdotto da Clinton nel '94 e non rinnovato da G. W. Bush nel 2004 (quello che oggi si sta pensando di reintrodurre). Negli anni '70 però, trovandosi nel mirino di un gruppo terrorista, Feinstein aveva chiesto e ottenuto il permesso di portare un'arma nascosta, e per alcuni anni fu l'unica persona in tutta la città a godere di questo "privilegio". Oggi non gira più armata. Strenua ecologista, favorevole a limitare lo strapotere delle assicurazioni sanitarie, sostenitrice dei matrimoni gay, sostenitrice della pena di morte.


martedì 18 dicembre 2012

Le armi negli Stati Uniti: un po' di statistiche

Questo articolo uscito su Wonkblog (Washington Post) raccoglie dodici statistiche su diversi aspetti della diffusione delle armi e delle sparatorie di massa negli Stati Uniti. Eccone alcune.

- Sparatorie di massa negli Usa, 1982-2012. Da Mother Jones : Dal 1982 gli omicidi di massa compiuti con armi da fuoco sono stati almeno 61, e nella maggioranza dei casi (circa 50) le armi erano state acquistate legalmente.

- Gli Usa sono più violenti di altri paesi, ma anche lì la violenza è in declino. La tabella qui sotto, presa da qui, paragona il numero di morti per "aggressione" negli Usa e negli altri paesi OCSE (esclusi Messico ed Estonia).

  


- Il possesso di armi da fuoco negli Stati Uniti è in calo.
 


- Gli stati con un controllo più severo sulle armi tendono ad avere meno morti causati dalle armi da fuoco.



- Il controllo delle armi è un tema sempre meno popolare fra gli americani.



- Le sparatorie di massa non influenzano l'opinione dei cittadini sul controllo delle armi.





lunedì 17 dicembre 2012

Quote of the day: Henry Miller

Henry Miller. Big Sur, California, 1947. Foto: Henri Cartier Bresson

L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza. Così, tu immagini che sia sempre là ad attenderti, immutata, intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono, uomo donna o bestia. Non esiste l’America. È un nome che si dà a un’idea astratta.
Henry Miller, Tropico del Cancro
Traduzione di Luciano Bianciardi

domenica 16 dicembre 2012

I libri del buonumore: Achille Campanile

Lord Brummel o Del non farsi notare
 
Lord Brummel, che dell’eleganza aveva fatto la propria ragione di vivere, aveva di essa un famoso concetto: la suprema eleganza consiste nel vestire in modo che non si venga notati. Donde, la sua notorietà.
Si sa che quando un amico, incontrandolo, gli diceva: “Come siete elegante”, l’elegantissimo Lord esclamava sgomento: “Mi si vede forse qualche cosa?”, e correva a cambiarsi. È incredibile le pene che provava quando nelle cronache mondane leggeva: “Notato tra i presenti Lord Brummel”. Ne faceva un casus belli. Era tale la sua eleganza che a lungo andare i cronisti mondani finirono per scrivere nei resoconti dei ricevimenti e delle feste aristocratiche: “Non notato, fra gli intervenuti, Lord Brummel, benché ci risultasse presente”.
Ormai tutti sapevano che l’eleganza di Brummel consisteva in questo e - come sempre accade - anch’egli ebbe imitatori. Talché spesso nelle riunioni degli elegantissimi i cronisti dovevano scrivere: “In questa festa mondana non siamo riusciti a notare nessuno, tanto erano eleganti tutti, di quella speciale eleganza che consiste nel non farsi notare”.
Achille Campanile
Naturalmente, anche fra gli imitatori, Lord Brummel era quello che meno si faceva notare. Nessuno riuscì mai a uguagliarlo in quest’arte difficile e raffinata. “Non notato nessuno” scrivevano sovente i cronisti; “quanto a Lord Brummel, addirittura impossibile scoprirlo”. Quando l’elegantissimo s’accorse che tutti più o meno l’imitavano su questo terreno, riuscì a batterli con mezzi talvolta sleali. Un giorno, per esempio, in una festa a Corte, per non essere notato si nascose sotto una tavola.
“Che fa, Vostro Onore, qui?” gli chiedevano i camerieri.
E lui: “Non mi tradite. Sono qui per non farmi notare”.
Giunse a dei travestimenti. Nelle feste di dame si vestì talvolta da donna per passare inosservato. Se faceva il suo giro di beneficenza tra i poveri del rione, per non essere notato si vestiva da pezzente. Quando s’accorse che con questa storia di non farsi notare era diventato celebre, fu per lui una mazzata sul capo. Dovunque andava, sentiva mormorare:
“Quello è Lord Brummel. Guarda, guarda come non si nota!”.
E tutti se l’additavano bisbigliando: “È straordinario, non si nota affatto”.
Quando usciva di casa, la folla si stringeva intorno a lui per ammirare l’uomo che non si notava. Codazzi di gente lo seguivano attraverso la città per godere lo spettacolo di Lord Brummel che passava inosservato.
Questo fu il supremo trionfo dell’eleganza di Lord Brummel intesa a non dare nell’occhio. I cronisti scrivevano: “Notato, per il modo come riusciva a non farsi notare, Lord Brummel”.
Brummel, però, non era felice. Deperiva. Non sapeva più come fare per non essere notato. Finì per non uscire più di casa.
Ma i familiari l’osservavano. Dava nell’occhio con quello starsene tappato in casa per non essere notato. Giunse a restare in letto, col capo sotto le coltri. La mattina il vecchio servitore gli portava la cioccolata: dov’è andato? Non c’è. Il letto presentava un rigonfiamento sospetto. Eccolo! Lord Brummel, zitto, lasciava palpeggiare e non si muoveva.
“È lui o non è lui?” Il servitore tirava via le coperte e Brummel appariva rannicchiato. “Maledetto,” borbottava “mi ha notato.”
Vedendo che non riusciva a non farsi notare, s’ammalò di crepacuore.
Il medico lo notò.
Morì. La cosa non passò inosservata: fu chiuso in una cassa.
Per disposizione testamentaria, Lord Brummel, dando ancora un’ultima prova di buon gusto, aveva voluto che il funerale passasse inosservato. La cosa incuriosì talmente che tutta Londra era lì a vedere come riusciva bene a passare inosservato.

da Vite degli uomini illustri

sabato 15 dicembre 2012

Today, Enough


"Today, and not tomorrow, we are waiting for you to step up because you are the president. We are tired of tomorrow as the better time to talk about gun control. We have run out of tomorrows, President Obama. We cannot afford to wait any longer."

Read the whole article here.

mercoledì 12 dicembre 2012

Postcards from Genova/2

L'ascensore di Castelletto

Sopra Castelletto, villa signorile con cane

Per pranzo, naturalmente

Boccadasse

Boccadasse

martedì 11 dicembre 2012

lunedì 10 dicembre 2012

In the mood for poetry: Giorgio Caproni

Litania

Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.

Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria scale.

Genova nera e bianca.
Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.

Genova mio rimario.
Puerizia. Sillabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.

Genova in comitiva.
Giubilo. Anima viva.
Genova in solitudine,
straducole, ebrietudine.

Genova di limone.
Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.

Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.

Genova tutta tetto.
Macerie. Castelletto.
Genova d'aerei fatti,
Albaro, Borgoratti.

Genova che mi struggi.
Intestini. Caruggi.
Genova e così sia,
mare in un'osteria.

Genova illividita.
Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.

Genova d'uomini destri.
Ansaldo. San Giorgio. Sestri.
Genova in banchina,
transatlantico, trina.
Genova tutta cantiere.
Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.

Genova di torri bianche.
Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.

Genova di mala voce.
Mia delizia. Mia croce.
Genova d'Oregina,
lamiera, vento, brina.

Genova nome barbaro.
Campana. Montale, Sbarbaro.
Genova dei casamenti
lunghi, miei tormenti.

Genova di sentina.
Di lavatoio. Latrina.
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.

Genova di tramontana.
Di tanfo. Sottana.
Genova d'acquamarina,
area, turchina.

Genova di luci ladre.
Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.

Genova di Soziglia.
Cunicolo. Pollame. Trilia.
Genova d'aglio e di rose,
di Pré, di Fontane Masrose.

Genova di Caricamento.
Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell'Acquasola,
dolcissima, usignuola.

Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.

Genova di Barile.
Cattolica. Acqua d'Aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.
Genova di Corso Oddone.
Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.

Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch'è tutto dire,
sospiro da non finire.

Genova quarta corda.
Sirena che non si scorda.
Genova d'ascensore,
paterna, stretta al cuore.

Genova mio pettorale.
Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.

Genova di mio fratello.
Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.

Genova di mia sorella.
Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.

Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d'angelo e di puttana.

Genova di coltello.
Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas, costernazione.

Genova di Raibetta.
Di Gatta Mora. Infetta.
Genova della Strega,
strapiombo che i denti allega.

Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d'urti da non scordare.

Genova di "Paolo & Lele".
Di scogli. Furibondo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l'amore s'impara.
Genova di caserma.
Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.

Genova d'argento e stagno.
Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.

Genova di grige mura.
Distretto. La paura.
Genova dell'entroterra,
sassi rossi, la guerra.

Genova di cose trite.
La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.

Genova che si riscatta.
Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.

Genova della mia Rina.
Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche, dove ho preso moglie.

Genova sempre nuova.
Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.

Genova palpitante.
Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m'è nato Attilio.

Genova dell'Acquaverde.
Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, Via Bernardo Strozzi.

Genova di lamenti.
Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.

Genova della Spezia.
Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
Partenza senza ritorno.

Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita.
Genova di stocafisso
e di garofano, fisso
bersaglio dove inclina
la rondine: la rima.




































(da Il Passaggio di Enea)