lunedì 30 aprile 2012

Riflessioni sulla Nutella

La notizia della mamma californiana che fa causa alla Nutella per pubblicità ingannevole e fa partire una class action che costringerà la Ferrero USA Inc. a pagare un risarcimento di più di tre milioni di dollari mi aveva lasciato piuttosto indifferente. Un sorrisino di scherno per la solita californiana salutista rompiscatole, niente di più. Non che fossi dalla parte della multinazionale, però trovavo un po' esagerata la posizione ipersalutista.

Poi, questa mattina, ho letto un interessante articolo di Luca Celada su Losangelista e ho cambiato idea sulla signora Athena Hohenberg. Sarà anche una rompiscatole, però ha ragione. Ecco cosa dice l'articolo di Celada:

"(...) La società, che in materia di disinformazione pubblicitaria è recidiva, dovrà modificare le etichette sulle confezioni vendute in America per riflettere più chiaramente che l’alimento in questione contiene zuccheri e grassi saturi in quantità tipiche dei dolciumi e risarcire ogni consumatore che l’abbia acquistata negli ultimi quattro anni e che ne faccia richiesta. Al solito la notizia ha suscitato numerosi commenti sul vittimismo di chi farebbe meglio ad usare il buonsenso invece di correre a piangere in tribunale per qualsiasi inezia. A noi però sembra che fondamentalmente la storia riproponga la questione della protezione dei consumatori al tempo dell’alimentazione industriale. La Ferrero e la sua crema avranno pure origini radicate in tradizioni più artigianali di molti cibi di massa, ma stiamo pur sempre parlando di una multinazionale agroalimentare con un fatturato di 6 miliardi di euro, 20000 dipendenti e un’impronta globale di dolciumi mirati ai bambini in un momento di obesità endemica ed esplosione di patologie legate all’alimentazione squilibrata. Una posizione che nel mondo competitivo dell’alimentazione di massa  si raggiunge e si mantiene solo con una massiccia operazione di  marketing come la Ferrero fa dai tempi di Carosello; ancora più della qualità della cioccolata il genio dell’azienda è stato l’imprinting a tappeto di generazioni di consumatori mediante 'narrative' sui loro dolci, fra cui quella di come siano 'sani e genuini'.  Ora l’opposto della pubblicità è l’informazione, ad esempio sugli ingredienti e sulle qualità nutritive dei prodotti venduti, e non a caso le lobby del settore sostengono costanti campagne contro norme di trasparenza  in materia. 
Più singolare è invece l’attitudine della nostra stampa, che in questioni di Nutella sembra interpretare il proprio ruolo come difensore dell’onore della multinazionale italiana dagli attacchi del subdolo straniero.  Sia Repubblica che il Corriere riportando la notizia hanno lasciato l’ultima parola alla società, trascrivendo ampi stralci del comunicato della Ferrero; Repubblica gli dedica 2 di 4 paragrafi del proprio articolo e conclude con lo slogan integrale della società: “L’utilizzo di Nutella a prima colazione con pane, latte e frutta nelle quantità suggerite – conclude la Ferrero – rimane un utilizzo raccomandato da numerosi studi scientifici di alta rilevanza internazionale nel quadro di una dieta equilibrata e gustosa, che come dice la pubblicità, fa più buona la vita”. Ah beh, se lo dice pure la pubblicità… appunto. Anche dal  Corriere ampio risalto al comunicato aziendale in cui si legge tra l’altro che «L’accordo transattivo raggiunto da Ferrero negli Stati Uniti è relativo al solo contenzioso nato dalla pubblicità trasmessa negli Stati Uniti e alla conformità di quest’ultima alle esigenze della legislazione americana. Non vi è nessun tipo di necessità di correggere da parte dell’azienda i suoi comportamenti commerciali e pubblicitari negli altri paesi ». Meno male, così non ci dobbiamo metterci a leggere tutte quelle parole noiose scritte piccole piccole sull’etichetta come quegli sfigati californiani. Tiè! (...) 
Quadrato insomma attorno alla crema  nazionale, e al nostro diritto  di non sapere cosa ci mangiamo. Un autolesionismo efferato, che ricorda quello degli elettori repubblicani che marciano per il diritto a non essere curati perché la previdenza sanitaria è un concetto socialista. E così i consumatori italiani e europei per il momento sono salvi dalle informazioni sugli ingredienti che mangiano. In realtà sull’etichettatura non è che si brilli né da una parte né dall’altra dell’Atlantico. Le multinazionali combattono la trasparenza con medesimo vigore in Europa e USA dove ad esempio le etichette non riportano la presenza di ingredienti OGM, (...)  ma non ci sembra una buona ragione perché anche i giornali si debbano schierare per il diritto all’ignoranza a difesa dei produttori. Come dimenticare il putiferio sollevato un paio di anni fa  quando la UE  tentò di applicare le norme sui valori nutrizionali scatenando l’allarme di ansimanti titolatori: “La Ue dichiara guerra al mito Nutella”, “Allarme: Nutella a Rischio”. (...) Accanto alla tutela del made in Italy (...) l’argomento che spunta regolarmente in questi casi  è quello del buonsenso per cui 'veramente abbiamo bisogno di uno stato-balia che ci spieghi che lo zucchero fa ingrassare?' La mamma californiana che ha denunciato la Ferrero perché i suoi spot l’avevano convinta a cibare ogni mattina la propria bimba di zucchero e olio di palma anziché cereali e frutta sarà anche ingenua, ma il fatto che abbia prodotto delle etichette più oneste francamente non dispiace. Va bene imprinting e patriottismo, ma davvero vogliamo batterci per il diritto delle corporation a raccontarci le frottole?"

domenica 29 aprile 2012

La liberazione dei beagle


Blitz degli animalisti nell'allevamento di Green Hill, liberati una cinquantina di cani destinati alla vivisezione. Per saperne di più (la notizia oggi è dappertutto) leggete per esempio qui. E qui, dove si parla degli animalisti arrestati.

giovedì 26 aprile 2012

Una minorenne in America/1: Premessa

Il post di Basilico & Ketchup sul mullet mi ha ricordato quello che io stessa fui costretta a subire tanti anni fa a New York, quando avevo diciotto anni. Ora, io in genere non amo parlare di me, almeno non in senso autobiografico, però ci sono due o tre episodi dei miei viaggi americani tardoadolescenziali che forse in effetti meritano di essere raccontati. Prima di cominciare, tuttavia, occorre una breve premessa.
Come accadde che mi ritrovai in America incustodita a quella tenera età? Quando avevo sedici anni i miei fantastici genitori mi mandarono a New York per una vacanza studio. Alloggiavo al Wagner College di Staten Island con un gruppo di altri studenti italiani. Pessima idea, i gruppi di qualunque tipo mi fanno venire l'orticaria. Individuai subito un'alleata, e inseme a lei fuggii dal college. Cioè, non è che proprio fuggimmo, io e Cristina. Ogni tanto ci tornavamo, a Staten Island, in genere al mattino per fare colazione e dormire un po'. La sorveglianza non era molto rigida, anzi, diciamo che era inesistente, e così io e Cristina ci godemmo New York praticamente da sole, per tre settimane, a sedici anni, nei tardi anni Ottanta. Conobbi anche il sarto di Bruce Springsteen, che mi regalò i suoi jeans. Naturalmente fu un'esperienza che mi cambiò la vita.

Io, a San Francisco, a 17 anni
L'anno dopo io e Cristina decidemmo di replicare. L'idea della vacanza studio ci era piaciuta assai. Meta: San Francisco, nell'estate dei miei diciassette anni. Questa volta la formula era ancora più rilassata, e l'aula di studio non la vedemmo neppure una volta. Passammo molto tempo con un signore conosciuto in mensa, un certo Gerard che non ho mai più ritrovato, che allora ci sembrava vecchissimo ma che doveva avere sì e no sessant'anni. Gerard aveva il brevetto di pilota turistico, e ci portò a Disneyland con un aeroplanino a quattro posti. Il viaggio di ritorno da San Francisco a New York - dove ci attendeva l'aereo, quello grande, per l'Italia - lo facemmo con il Greyhound, tre giorni e quattro notti ininterrotte di viaggio. Ho ancora il biglietto che mi spedì mio padre dall'Italia. Fare: 70USD.

L'anno dopo, il mio ultimo viaggio americano prima che finissero i soldi. Sarei tornata solo nel 2003. Cristina quell'estate non era disponibile, e così dovetti organizzarmi con quello che trovai. Il figlio dell'assicuratore di mio padre partiva per un viaggio in macchina sulla costa est con la fidanzata e un amico, e così decisi di aggregarmi, senza conoscerli. Pessima idea. Tre delle persone più odiose che abbia mai conosciuto, davvero, tre mostri ripugnanti. Incastrata quasi sempre in macchina con loro, durante l'ultima settimana a New York me ne andai sempre in giro da sola. Rividi M., il mio fidanzatino di due anni prima che adesso lavorava nel World Trade Center, vestiva in giacca e cravatta e non mi si filava più. L'ultimo giorno pioveva, ero triste e non sapevo cosa fare. Avevo un walkman con cui ascoltavo People Are Strange dei Doors, lo ricordo bene. E così decisi di andare a tagliarmi i capelli. Come Eric Packer di Cosmopolis, adesso che ci penso. E così, per molti anni, il mio ultimo ricordo di New York sarebbe il giorno in cui un parrucchiere portoricano mi aveva fatto un mullet.

mercoledì 25 aprile 2012

Buon compleanno Ella




Il presepe emerso (e imprigionato)

Per quelli che sono rimasti sorpresi dall'esistenza del presepe sommerso di cui parlavo nei commenti qui, sono andata a scattare alcune foto nel luogo dove il suddetto presepe viene ricoverato fuori stagione.










martedì 24 aprile 2012

We don't want a society without them


Today I was reading an article by Scott Timberg on salon.com, No sympathy for the creative class, and I was reminded of this Craigslist ad that a friend recently showed me.

"They’re pampered, privileged, indulged – part of the 'cultural elite,'" writes Timberg. "They spend all their time smoking pot and sipping absinthe. To use a term that’s acquired currency lately, they’re entitled. (...) This what we hear about artists, architects, musicians, writers and others like them. And it’s part of the reason the struggles of the creative class in the 21st century – a period in which an economic crash, social shifts and technological change have put everyone from graphic artists to jazz musicians to book publishers out of work – has gone largely untold. Or been shrugged off.
Neil Young and Bruce Springsteen write anthems about the travails of the working man (...) Taxpayers bail out the auto industry and Wall Street and the banks. There’s a sense that manufacturing, or the agrarian economy, is what this country is really about. But culture was, for a while, what America did best: We produce and export creativity around the world. So why aren’t we lamenting the plight of its practitioners? Bureau of Labor Statistics confirm that creative industries have been some of the hardest hit during the Bush years and the Great Recession. But  when someone employed in the world of culture loses a job, he or she feels easier to sneer at than a steel worker or auto worker. (...) The musicians, actors and other artists we hear about tend to be fabulously successful. But the daily reality for the vast majority of the working artists in this country has little to do with Angelina Jolie or her perfectly toned right leg. Artists in the Workforce,” a National Endowment for the Arts report released in 2008, before the Great Recession sliced and diced this class, showed the reality of the creative life. While most of the artists surveyed had college degrees, they earned — with a median income, in 2003-’05, of $34,800 — less than the average professional. Dancers made, on average, a mere $15,000. (More than a quarter of the artists in the 11 fields surveyed live in New York and California, two of the nation’s most expensive states, where that money runs out fast. The report has not been updated since 2008.)
'What does it mean in America to be a successful artist?' asks Dana Gioia, the poet who oversaw the study while NEA chairman. 'Essentially, these are working-class people – a lot of them have second jobs. They’re highly trained – dancers, singers, actors – and they don’t make a lot of money. They make tremendous sacrifices for their work. They’re people who should have our respect, the same as a farmer. We don’t want a society without them.'"

Read the rest of the article HERE.

lunedì 23 aprile 2012

Buon compleanno Vladimir


"Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.
Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
Una sua simile l’aveva preceduta? Ah sì, certo che sì! E in verità non ci sarebbe stata forse nessuna Lolita se un’estate, in un principato sul mare, io non avessi amato una certa iniziale fanciulla. Oh, quando? Tanti anni prima della nascita di Lolita quanti erano quelli che io avea quell’estate. Potete sempre contare su un assassino per una prosa ornata.
Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiarono i serafini, i male informati, ingenui serafini dalle nobili ali. Guardate questo intrico di spine."

Vladimir Nabokov (nato a San Pietroburgo il 23 aprile 1899), Lolita, ed. Adelphi. Traduzione (splendida) di Giulia Arborio Mella

domenica 22 aprile 2012

L'esilio è forse la patria della parola

«... anche una lingua può essere bandita dal suo luogo d'origine, (...) può restare sacra anche se - ­ o forse proprio perché ­ - la ricchezza che un tempo possedeva è quasi svanita. Non è un caso forse che l'età aurea nella storia della poesia ebraica - quella della Spagna musulmana -­ sia sorta nel momento in cui gli scrittori in questa lingua perdevano definitivamente di vista la lingua natia. Perché l'esilio è forse la patria della parola, e può ben darsi che si possa accedere al segreto di una lingua nel preciso istante in cui la si dimentica».

Daniel Heller-Roazen, Ecolalie, Quodlibet 2007. Traduzione di Andrea Cavazzini.

venerdì 20 aprile 2012

Cosmopolis a Cannes: il trailer




Sta finalmente per arrivare nelle sale cinematografiche Cosmopolis, il film di David Cronenberg tratto dall'omonimo romanzo di Don DeLillo da me tradotto in italiano (ne parlavo qui qualche mese fa, citando anche l'incipit del libro).

Il film sarà in concorso a Cannes, e uscirà in Italia il 25 maggio.

Ecco qui il trailer ufficiale.





giovedì 19 aprile 2012

Casa!


Ok, ho barato, la foto l'ho scattata a Natale, poco prima di partire. Se guardate bene, più o meno in mezzo ai due muri del porticciolo dovreste vedere un coso che spunta dall'acqua: è l'orrido albero di Natale che per tutto dicembre va su e giù in mezzo al lago. Un po' più in là c'è pure un presepe sommerso.

La foto ritrae un angolo pittoresco della terra di Lombrosia, abitata in maggioranza dalla stirpe dei lombrosiani, che si riconoscono per via della fronte bassa, dell'espressione stolida e del frequente uso di indumenti verdi. Il panorama è stato immortalato mettendosi nella posizione consigliata a chi scatta fotografie da queste parti: rigorosamente con le spalle alla terraferma, per evitare di comprendere nell'inquadratura la spianata di villini del geometra e palazzoni postsovietici che ricopre la prospera Lombrosia. Se vi girate verso il lago e le montagne (sempre che rimaniate a distanza di sicurezza dagli analoghi villini e palazzoni costruiti sull'altra sponda) invece, va tutto bene. Basta che non vi venga in mente di nuotare nel lago. L'inquinamento è così grave che potrebbe bastare un tuffo per trasformarvi in lombrosiani.

lunedì 16 aprile 2012

domenica 15 aprile 2012

Postcards from New York/15: Un ristorante da provare

Ok, soggetto poco originale, però sempre bello

Un negozio interessante, senza dubbio

Ristorante per uccellini


E il ristorante per umani? Eccolo! Il nostro posto preferito a New York, il Café Asean nel West Village. Suggerito tempo fa dalla nostra amica Cheryl Tan, food writer, food blogger e fonte inesauribile di preziosi consigli su ristoranti (nonché autrice di A Tiger in the Kitchen, A Memoir on Food and Family), il ristorante dello chef Simpson Wong è davvero da provare!

sabato 14 aprile 2012

Postcards from New York/14: I ♥ Brooklyn

Dopo l'incontro fallito con Alice (ci siamo aspettate invano a poche centinaia di metri di distanza... e no, non avevamo entrambe il cellulare), me ne sono andata a spasso per Brooklyn.

Fiore tra i fiori in Prospect Park
 
Quando il mio benefattore si sarà deciso a regalarmi la prima casa, gli chiederò questa come seconda

La vista dalla mia futura seconda casa



 
Sul ponte, ovviamente




E per finire, cena alla mitica First Literary Hungarian Society ("A single $20 four-course meal, typically including an appetizer like pickled herring, cold sour-cherry soup, a toothsome goulash or sliced pork with sour cream and bacon, and dessert, still has the potential to completely destroy your 30-days-to-killer-abs regimen"). Cucina tipica ungherese, atmosfera da circolo, età media ottantacinque anni. Tutti hanno un piccolo tavolino di fianco per appoggiare le pietanze mentre si dedicano all'attività principale che si svolge sul tavolo: la partita a carte.
Niente foto d'interni, purtroppo. Non sarebbe stato carino.




venerdì 13 aprile 2012

Meet my husband/14: Jonathon Keats at the Rockefeller Center

Yesterday I was at the opening of Mr. Keats' new project, which I began to describe here. It will be still up for a few days at the Engineer's Office Gallery in New York City.

Mr. Keats installing the work
According to Discovery News: "a data processing center in the basement of New York's Rockefeller Plaza will become the world's first computing hub powered entirely by international currency exchange. That energy will be produced on location by swapping ions between newly-minted US cents and Chinese fen."

On Big Think (which has called Mr. Keats their "favorite living artist") he explains: "You can think of it as electro-chemical arbitrage. And it works equally well in bull and bear markets. With our current setup, using several dozen cells filled with saltwater from the Pacific Ocean, we've generated as much as 18.7 volts.” Big Think has also posted the first part of a long video interview: "The Man Who Copyrighted His Own Mind".

In an interview published by Live Science (and picked up by Yahoo News and msnbc.com) : "The U.S. Mint strikes between 4 billion and 5 billion cents per year. The number of fen struck in China is not made public by the Chinese government, but Japanese yen and Thai satang are also aluminum, as is the Peruvian 5 centimos coin. So with a bit of land — most likely not in midtown Manhattan — and some good ocean access, you could probably operate the latest IBM Blue Gene [supercomputer]. Or you could certainly power a lot of iPhones."

Here is a quote from the Wired article: “This is money at its most democratic. Unlike credit-default swaps, electrochemical arbitrage is for the 99 percent, and the value is real, measurable in volts and amps. If you want to build your own currency exchange, all you need is some pocket change and seawater.”

Mr. Jimmy from the engineers' staff tests the tools




And this is from The Economist: "Mr Keats, a concept artist (or, as he likes to call himself, an experimental philosopher), introduces the notion 'electro-chemical arbitrage'. An engineer might call it a battery."


 
Read more, if you wish, on Nerdcore, The Verge and (a nasty one, like most of the comments for every article) Happy Famous Artists.


giovedì 12 aprile 2012

Postcards from New York/13: The Chelsea Hotel


Non poteva certo mancare la foto di una delle pietre miliari della città, lo strafamoso Chelsea Hotel, ormai non più albergo e in procinto di diventare un condominio per riccastri. Nel maggio del 2011 è stato venduto per 80 milioni di dollari, e in agosto è stato chiuso per lavori di ristrutturazione. I residenti di vecchia data, protetti dalla legge sugli affitti, vivono ancora nell'edificio, ma chissà per quanto riusciranno a resistere.

L'edificio, che è un New York City landmark e rientra nel National Register of Historic Places, venne costruito tra il 1883 e il 1885. Dodici piani, mattoni rossi e uno stile che è stato variamente descritto come Revival Queen Anne e gotico vittoriano. Tra le sue caratteristiche distintive vi sono i balconi in ferro e il famoso scalone dove sono (erano) appese moltissime opere d'arte.
Gli ospiti illustri del Chelsea Hotel non si contano. Scrittori come Mark Twain, Charles Bukowski, William S. Burroughs, Arthur Miller, Tennessee Williams, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre. Arthur C. Clarke vi scrisse 2001: Odissea nello spazio; Dylan Thomas vi morì di polmonite; Allen Ginsberg e Gregory Corso si incontravano lì; Jack Kerouac vi scrisse On the Road.
Attori e registi, fra cui Stanley Kubrick, Miloš Forman, Lillie Langtry, Ethan Hawke, Dennis Hopper, Vincent Gallo, Uma Thurman, Elliott Gould, Jane Fonda. Moltissimi musicisti, come Bob Dylan, Janis Joplin, Leonard Cohen, Patti Smith, Iggy Pop, The Grateful Dead, Tom Waits, Patti Smith, Iggy Pop, Virgil Thomson, Jeff Beck, Chick Corea, Dee Dee Ramone, John Cale, Édith Piaf, Joni Mitchell,  Alice Cooper, Jimi Hendrix, Sid Vicious, Rufus Wainwright, Madonna. 
Artisti: Larry Rivers, Christo, Arman, Francesco Clemente, Julian Schnabel, Frida Kahlo, Diego Rivera, Robert Crumb, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Willem De Kooning, Robert Mapplethorpe, Henri Cartier-Bresson. E naturalmente Andy Warhol, che insieme a Paul Morrisey vi diresse il film Chelsea Girls nel 1966.

Se volete saperne di più, su Wikipedia troverete anche un elenco di film, canzoni e libri dove compare il mitico Chelsea Hotel.

mercoledì 11 aprile 2012

Postcards from New York/12: Dall'East Side al West Side

Park Avenue
  
Tricheco al pub
Violinista nel parco

Barney Greengrass, nell'Upper West Side. Locale poco riscaldato, camerieri pigri, "leggendaria cucina ebraica". Un'istituzione.
Per chi non ama il gefilte fish, anche Dunkin' Donuts è kosher

E per finire, un tè con Julie Otsuka nel suo "ufficio"

martedì 10 aprile 2012

Postcards from New York/11: The Nightmare of Consumption

Ieri ho fatto una piccola spesa da Eli's Manhattan. Al momento di pagare mi sono resa conto di essere entrata dritta dritta in una pagina delle Correzioni (Chip, c'est moi), quella in cui viene descritto un supermercato di nome l'Incubo del Consumo.

"Verso le otto si ritrovò davanti al nuovo Incubo del Consumo ('Tutto… a prezzi incredibili!') in Grand Street. Sul cielo era apparsa una cappa di umidità, un vento solforoso e inquietante che soffiava da Rahway e Bayonne. La gente superbene di Soho e Tribeca si riversava nei portali d'acciaio satinato dell'Incubo. Gli uomini erano di svariate forme e dimensioni, ma le donne erano tutte snelle e trentaseienni; molte erano sia snelle che incinte. Chip aveva un'eruzione cutanea sul collo a causa del taglio di capelli, e non si sentiva pronto per essere visto da tante donne perfette. Ma appena superata la porta dell'Incubo viede una confezione di verdura con la scritta ACETOSELLA DEL BELIZE $0.99.
Entrò nell'Incubo, agguantò un cestino e vi infilò un mazzetto di acetosella. Novantanove cent. [...] Chip s'insinuò fra carrelli e antenne di cellulari fino al banco del pesce, dove, come in un sogno, trovò SALMONE NORVEGESE PESCATO ALL'AMO in vendita a un prezzo ragionevole. Indicò un filetto di taglia media, e alla domanda del pescivendolo, – Altro? – rispose in tono deciso, quasi compiaciuto, – Basta così.
Il prezzo del bel pacchetto che gli fu consegnato era di $78.40. Per fortuna quella scoperta lo lasciò senza fiato, altrimenti avrebbe potuto protestare prima di accorgersi, come fece in un istante, che i prezzi dell'Incubo erano all'etto. Due anni prima, due mesi prima, non avrebbe commesso un errore del genere.
– Ha, ha! – disse, tenendo in mano il filetto da settantotto dollari come un guantone da baseball. Piegò un ginocchio a terra, si toccò i lacci delle scarpe, fece scivolare il salmone dentro il giubbotto di pelle e sotto il maglione, si infilò il maglione nei calzoni e si rialzò in piedi."

(Traduzione mia, ça va sans dire).

lunedì 9 aprile 2012

Postcards from New York/10: Cindy Sherman at MoMa



From the MoMa website: 
"Cindy Sherman (American, b. 1954) is widely recognized as one of the most important and influential artists in contemporary art. Throughout her career, she has presented a sustained, eloquent, and provocative exploration of the construction of contemporary identity and the nature of representation, drawn from the unlimited supply of images from movies, TV, magazines, the Internet, and art history. Working as her own model for more than 30 years, Sherman has captured herself in a range of guises and personas which are at turns amusing and disturbing, distasteful and affecting. To create her photographs, she assumes multiple roles of photographer, model, makeup artist, hairdresser, stylist, and wardrobe mistress. With an arsenal of wigs, costumes, makeup, prosthetics, and props, Sherman has deftly altered her physique and surroundings to create a myriad of intriguing tableaus and characters, from screen siren to clown to aging socialite."



Untitled #466. 2008. Chromogenic color print (Source)
Untitled #224 1990 Colour photograph (Source)
Untitled Film Still No.32 1979 Black and white photograph (Source)
Untitled No.122 1983 Colour photograph (Source)
Untitled #359, 2000 Color photograph (Source)