martedì 30 luglio 2013

L'anti-politically correct

Un giorno alla domanda "How are you doing today?" del giovane commesso ho risposto, soprappensiero, dicendo la verità. Qualcosa tipo: ho un po' di mal di testa. Oppure: male, stanotte non ho chiuso occhio.
La reazione, però, è stata molto diversa da quella del commesso medio italiano, che avrebbe come minimo ricambiato la lamentela, magari rincarando un po' la dose per far vedere che lui stava anche peggio. Oppure mi avrebbe incoraggiata con qualche banalità, tipo: su, dai, che oggi è venerdì. Il commesso medio americano invece mi ha guardata allarmato, quasi terrorizzato, senza sapere cosa dire. Poi mi ha rivolto un "I'm sorry" costernato, autentico come una banconota da tre euro.
Da quel giorno, per un po' mi sono divertita a farglielo apposta. "How are you doing today?" mi diceva, e io giù con qualche catastrofe. Lo lasciavo spaesato, poverino, la sua routine interrotta, le sue certezze in frantumi. Poi ho smesso di divertirmi. Adesso rispondo "bene, grazie, e tu?", con un sorriso autentico come il suo.

Qualche giorno fa, parlando con un amico americano, ho detto che una certa persona è stupida. L'amico si è sganasciato dalle risate. Io non riuscivo a capire che cosa ci fosse di strano: non è che io vada in giro dando dello stupido a tutti, però può capitare, no?  D'altronde ce ne sono in giro tanti, di stupidi. Cosa c'è di tanto divertente?
Me l'ha spiegato Mr. K: "hai detto quello che tutti pensano ma nessuno osa dire". 
Ed ecco che all'improvviso quella che per me è una normale conversazione diventa un atto di grande originalità. Fico. Mi sa che più sto negli Usa e più divento italiana.

lunedì 29 luglio 2013

Fruitvale Station


La storia vera dell'ultimo giorno di vita di Oscar Grant, ucciso da un poliziotto la notte di Capodanno del 2009 nella stazione del BART (Bay Area Rapid Transit) di Fruitvale, a Oakland. Al momento dello sparo Oscar era disarmato, sdraiato per terra a pancia in giù e ammanettato. L'omicidio è stato filmato da numerosi passeggeri della metropolitana, in quel momento ferma alla stazione. Il poliziotto che sparò a bruciapelo alla schiena di Oscar Grant si prese due anni per omicidio colposo, e uscì dal carcere dopo 11 mesi
Il film è fatto bene, e fa stare molto male.

domenica 28 luglio 2013

L'asta di Hollywood

Si è aperta oggi la 56ma asta di "Hollywood memorabilia" di Profiles In History. Il grosso catalogo (quasi 400 pagine) che trovate QUI contiene meraviglie come i vestiti di Big Lebowski, la frusta e il cappello di Indiana Jones, il bastone di Charlie Chaplin in Tempi moderni... 
Se volete comprare qualcosa, si accettano offerte online.

JEFF BRIDGES “THE DUDE” SIGNATURE COSTUME AND SWEATER FROM THE BIG LEBOWSKI.

 

"This signature costume consists of a purple-dyed and distressed (with burnhole) XL V-neck Jockey brand T-shirt, grey striped, elastic-waist caftan 'muscle pants,' and his very memorable tri-tone brown well worn zipper-front cable-knit sweater (of which a few examples were required to make it through the entire production) (...) Easily one of the most recognized and admired costumes from recent Hollywood history. In production-used condition as seen in the film. On July 31, 2012, Profiles in History sold a virtual twin of this very costume for an astounding $114,000. 
$20,000-$30,000









“INDIANA JONES” WHIP USED IN 1981, 1984 AND 1989 INDIANA JONES MOVIES. 
"One of the most iconic tools in any action-hero’s arsenal, this bullwhip is instantly recognizable as that of archeologist, professor, treasure-savior 'Indiana Jones' (Harrison Ford). This hero whip was used in each of the original three films in the franchise in foreground and close-up shots. The whip was gifted to Sotheby’s UNICEF auction in 2001 by director Steven Spielberg. (...) In very good condition.
$40,000 - $60,000




HARRISON FORD’S SIGNATURE “INDIANA JONES” FEDORA HAT FROM INDIANA JONES AND THE LAST CRUSADE.
"This iconic fur felt fedora was worn by Harrison Ford in his first scene of Indiana Jones and the Last Crusade, in which 'Indy' is on the deck of the boat, wrestling for the Cross of Coronado, before walking across the screen and being hit by a surge of water. The water is seen to flatten the top of the hat he is wearing. It’s in this “flattened” state that this particular hat was left to dry, after having been washed off Harrison’s head during one of the takes. It was retained by a stunt-double who salvaged it from the water tank. The hat’s still supple and can be adjusted from the water flattened pose back
into the ‘hero’ pose. The hat is marked in black pen number “7” and has the initials “T.N.” handwritten on the inside. (...) In overall very good condition. 
$40,000 - $60,000


giovedì 25 luglio 2013

Lo scrittore che non sapeva descrivere le mani

M.C. Escher, Mani che disegnano, 1948


Pazzesco. Dopo la mia intervista che ho segnalato ieri, in cui imitavo una cattiva scrittura con la descrizione iperdettagliata di una mano, un'amica mi ha segnalato questo articolo sulla rivista satirica The Onion, intitolato Frustrated Novelist No Good At Describing Hands

Ci sarà un messaggio nascosto dell'universo, in queste bizzarre coincidenze? Che dite, contatto lo scrittore e gli do qualche lezione?

mercoledì 24 luglio 2013

Un'intervista alla sottoscritta/5

Ieri il blog ChomeTEMPORARY ha pubblicato una mia intervista. La mia parte preferita è quella dove imito lo stile "show don't tell" di certi pessimi scrittori americani sfornati con lo stampino dalle scuole di scrittura. Scrivono così, giuro. Tanto che sono già in contatto con un editore americano che vuole pubblicarmi un romanzo sulla base di quel brano.

Oggi per qualche ora abbiamo avuto un cielo. Peccato che fosse nuvoloso.

Qui sotto potete vedere un classico, luminoso tramonto estivo di San Francisco. 


martedì 23 luglio 2013

Il museo all'asta

Mount McKinley and Wonder Lake (1947), una delle foto restituite
Conversazione con due editori tedeschi e un collezionista d'arte americano. Il collezionista racconta delle cinquanta fotografie di Ansel Adams - scattate nel campo di prigionia per nippo-americani di Manzanar (di cui ho parlato QUI) - che è riuscito ad acquisire in seguito al fallimento del Metropolitan Museum di Fresno. A quanto pare il museo è andato in bancarotta e ha dovuto vendere la sua collezione. Mentre lui ci racconta tutto contento della sua acquisizione, io e i tedeschi ci guardiamo sbigottiti. "Ma come fa a fallire un museo?" chiedo io, mentre i tedeschi annuiscono vigorosamente. "Perché", mi risponde il collezionista, "come fa a fallire una città? Che fine pensi che faranno le opere dei musei di Detroit?"

Il giorno dopo vado a controllare la storia. Nel 2010 il museo di Fresno dichiarò bancarotta, perché non poteva restituire alla città i 28 milioni di dollari ricevuti in prestito per la ristrutturazione dell'edificio. Per pagare i debiti, la sua collezione venne venduta all'asta. La famiglia di Ansel Adams s'infuriò e  fece causa al museo per impedire la vendita di almeno alcune di quelle foto, che erano state donate dall'artista non certo con l'intenzione che finissero a decorare il salotto di qualche riccastro. Alla fine il museo accettò di restituire cinque foto alla famiglia, in cambio però di altre da poter vendere all'asta. Il museo di Fresno non ha più riaperto.

domenica 21 luglio 2013

Salvatore Settis e l'astratto modello americano

"Troppo spesso da noi si additano a modello le scuole americane, il cui disastroso fallimento è al contrario elemento ricorrente nel discorso politico e culturale americano. Troppo spesso sentiamo citare come un modello 'l'università americana', quasi che esistessero solo Harvard, Princeton o Yale; ma negli Stati Uniti esistono qualcosa come 3400 altre università il cui livello culturale e formativo medio è basso o bassissimo (se escludiamo le punte avanzate, certo meno di cento). Proprio chi meglio conosce, e magari ama, quel grande paese che sono gli Stati Uniti, dovrebbe invece dire a gran voce che dobbiamo imparare a 'pescarvi' non solo astratti e mitici 'modelli', ma anche, e soprattutto, quella capacità di autocritica che della società americana è uno dei tratti più positivi. Al contrario, mi sembra che la tendenza a mitizzare un astratto 'modello americano' sia di regola (e non solo in Italia) inversamente proporzionale alla reale conoscenza ed esperienza della società e delle istituzioni americane. Non si tratta solo di ignoranza: i modelli astratti fanno comodo perché nascondono le reali ragioni del mutamento, trasformando precise scelte politiche in direzioni di sviluppo spacciate per ineluttabili."

Da: Salvatore Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi 2002

venerdì 19 luglio 2013

La nebbia di San Francisco: un video

Lo so che ormai vi ho fatto una testa così con la nebbia di San Francisco, ma questo video riesce quasi a renderla bella. 
Come recita il sito di Internazionale, "Questo cortometraggio del fotografo di Oakland Simon Christen, intitolato Adrift, è stato girato nella baia di San Francisco con la tecnica del time-lapse. Il suo autore lo definisce 'Una lettera d’amore alla nebbia della città' [l'amore è cieco].

'Per circa due anni, ogni volta che il tempo sembrava promettente, mi sono svegliato alle 5, ho fatto 45 minuti di auto verso i promontori di Marin e ho puntato il mio obiettivo verso il Golden Gate Bridge', racconta Simon Christen [contento lui]."
[Grazie a entropia quotidiana per la segnalazione]

mercoledì 17 luglio 2013

Il massaggio cinese

Ecco, finalmente me l'hanno spiegato, visto che da sola non l'avevo ancora capito. Se vuoi rilassarti, scegli il massaggio occidentale, quello che ti accarezza, ti coccola, ti liscia i muscoli. Se invece vuoi sentirti come se ti avesse camminato sopra Godzilla, allora il massaggio orientale è quel che fa per te. 
Dopo la mia tragica esperienza con il massaggio fantozz-thai, sono tornata nel posto scrauso di Chinatown che è l'unico che mi posso permettere senza l'ausilio di buoni-regalo. Ho anche comprato un buono da cinque massaggi, che costava esattamente come cinque massaggi e quindi mi è sembrato molto conveniente. Basta che la prossima volta mi ricordi di dire alla signora cinese Sofia di pestarmi un pochino di meno, e tutto andrà per il meglio. Rispetto all'energumena tailandese, la signora Sofia è stata molto più lieve, e in effetti sono rimasta indolenzita solo il giorno dopo, anziché soffrire orribilmente per una settimana come dopo il massaggio thai.
Insomma, ancora un piccolo sforzo e ci siamo. Basterà regolare un po' la pressione e avrò trovato il massaggio che fa per me, economico, lungo e sciogli-tensioni. E poi non bisogna sottovalutare l'ambiente, classico Chinatown, lontano anni luce dal pretenzioso new-age californiano per riccastri. Un ambiente senza fronzoli e senza pretese, che bada solo all'essenziale. Le prese di corrente, per esempio. Quando la signora Sofia è uscita e mi ha lasciata sola nella stanza del massaggio, non ho potuto fare a meno di fotografare questo capolavoro:



lunedì 15 luglio 2013

Una messa col cappuccio

Ho sempre trovato le chiese americane estremamente affascinanti. Qui a San Francisco abito vicino alla mitica Grace Cathedral, la cattedrale episcopale di cui ho parlato diverse volte (per lo yoga nella cattedrale, per le vetrate di Albert Einstein e la cappella di Keith Haring, e per le danze nella cattedrale, qui e qui).

Ieri, mentre seguivo i tweet sulle proteste per Trayvon Martin, ho scoperto un'altra simpatica chiesa episcopale: la St. Aidan's Episcopal Church. In seguito al verdetto d'innocenza per George Zimmerman, i ministri della chiesa hanno officiato la messa indossando una felpa con cappuccio, quello hoodie che indossava Trayvon quando è stato ucciso e che è diventato il simbolo della protesta.



domenica 14 luglio 2013

Quote of the day: Martin Luther King Jr.

Trayvon Martin
 
 
Injustice anywhere is a threat to justice everywhere.
 
Martin Luther King Jr., Letter from Birmingham Jail, April 16, 1963








In Italia un leghista vomita insulti razzisti nei confronti di un ministro e rimane vicepresidente del Senato. Negli Usa l'assassino di un diciassettenne disarmato - ma nero - viene giudicato innocente e rimesso in libertà. Due petizioni: una per chiedere le dimissioni del leghista, l'altra della National association for the Advancement of Colored People, per chiedere un nuovo processo contro George Zimmerman

venerdì 12 luglio 2013

Una sorpresa a scuola: Fabio Geda

Fabio Geda e la tavola imbandita
Succede che in questo trimestre, con alcune classi, leggiamo il bel libro di Fabio Geda L'estate alla fine del secolo. Mentre preparo la prima lezione cerco notizie sull'autore, scopro che ha un blog, che però non aggiorna regolarmente perché è in viaggio da un anno. Succede che a un certo punto mi viene voglia di chiedergli spiegazioni sul significato di una parola siciliana che non mi è chiara, caddusu. Così lo rintraccio su feisbuc e gli mando un messaggio, dicendogli che l'informazione mi serve perché leggerò L'estate alla fine del secolo con gli studenti dell'Istituto Italiano Scuola di San Francisco. Succede che Fabio Geda mi risponde che in questo momento anche lui è a San Francisco: ci vediamo? E allora mi viene in mente che sarebbe bello fare una sorpresa agli studenti, che hanno già letto e amato un altro libro di Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Sarebbe bello, gli scrivo, farti entrare in classe durante la lezione in cui si parla del tuo libro, dicendo: "Signori e signore, ho una sorpresa per voi: Fabio Geda".
Detto, fatto. Quella sera stessa alle otto in punto Fabio Geda si presenta senza preavviso nella classe dove da due ore stiamo parlando dei suoi libri, e si ferma per un'altra ora a chiacchierare con gli studenti. Un bellissima chiacchierata, informale (come si può vedere dalla tavola apparecchiata con libri e cibo: spesso gli studenti portano a scuola ogni bendidio, e in questo caso avevamo vino, birra, pomodori, peperoni e prugne dell'orto, formaggio e pane e fatto in casa), cordiale e molto interessante, con Fabio gentile e disponibilissimo e gli studenti al settimo cielo. Succede, a volte, di avere proprio una bella fortuna.

mercoledì 10 luglio 2013

Lo scambio di casa

Io a Dumbo, in gennaio (con borsa del Chiapas)
Come qualcuno di voi ricorderà, la nostra bella vacanza berlinese si è svolta grazie a uno scambio di casa. 
Sono sempre stata una viaggiatrice squattrinata (come si sarà capito anche dalle mie avventure in Chiapas) e come tale ho sempre cercato metodi alternativi e inventivi per andarmene in giro spendendo poco. Non me ne sono mai pentita. Dopo un paio di classici e molto stancanti viaggi con lo zaino (oltre al Chiapas, anche l'India), a un certo punto ho preferito passare all'occupazione consensuale delle case altrui. A New York sono stata house-sitter di Mr. Franzen, poi ho fatto la cat-and-dog sitter (due gatti e due cani, non proprio una passeggiata) a Dumbo (in una casa che adesso non c'è più, vittima della gentrificazione selvaggia) e la cat-sitter (una gatta sola: una vera pacchia che infatti ripetei una seconda volta, finché la padrona di casa non si accorse che ci guadagnava di più ad affittarlo, il suo appartamento, gatta compresa) a Park Slope.
Poi ho scoperto lo scambio di casa. Ci sono diverse organizzazioni; quella a cui sono iscritta io si chiama Homelink e per quanto mi riguarda funziona benissimo. Finora ho fatto tre scambi: uno nell'Upper West Side di New York con una coppia di psicologi viaggiatori, uno a Parigi con un drammaturgo italofono, e quest'ultimo a Berlino con la signora Gisela. Non ho mai avuto nessun problema, ho sempre trovato lo scambio giusto nel periodo che cercavo, e al mio ritorno la casa era sempre in condizioni perfette. E se avessi tempo per viaggiare sempre, potrei girare il mondo così, accettando le offerte più inaspettate per passare l'inverno in Nuova Zelanda o l'estate in Provenza... sempre al caldo, insomma, in fuga dalla nebbia di San Francisco.

sabato 6 luglio 2013

Volate Air Canada (se proprio dovete volare)

La piena del Tevere (lo vedete il tronco?)
Ho concluso la mia estate a Roma sotto un cielo perfetto. Ho frequentato persone belle, sono stata ospite nella bella casa dei miei amici, ho pranzato alla Casa Internazionale delle Donne che mi piace tanto, e quando i trasporti mi hanno tradita, facendo saltare l'incontro con Andrea a Villa Borghese, ho passato qualche ora solitaria e fresca all'Orto Botanico. Ho chiacchierato con tutti, perché Roma mi mette allegria e i romani mi fanno venir voglia di chiacchierare. Ho chiacchierato un po' anche con il tassista che mi portava a Fiumicino, ma non tanto, perché aveva messo Cara di Lucio Dalla ("Signo', questa è la canzone più bella di Dalla") e mentre guardavo la vita di Roma scorrere davanti al finestrino mi si è stretto il cuore, e non è una metafora, il cuore si stringe davvero e fa anche un po' male.
(Le caviglie, Silvia, ricordati che con il caldo ti si gonfiano le caviglie, adesso ti sembra di lasciare un paradiso ma poi il caldo si farà intollerabile e tu sarai felice di essertene andata. Già. Felicissima.)

L'orto botanico (estate)
E comunque, se proprio volete lasciare Roma d'estate per approdare a San Francisco in inverno (come dice quella citazione abusatissima ma sempre valida, che tutti attribuiscono a Mark Twain ma che lui mai pronunciò: L'inverno piu' freddo della mia vita fu un'estate a San Francisco), volate con una compagnia europea, oppure con Air Canada, come ho fatto io questa volta. Le compagnie americane, oltre a essere notoriamente pessime, fanno scalo in territorio americano. Soprattutto a New York. Non si contano le storie dell'orrore degli italiani residenti in California sugli scali newyorkesi. C'è gente che si farebbe tagliare una mano, piuttosto che rifare a scalo a Newark o a JFK. Provate anche solo a menzionare uno di quegli aeroporti a un italo-californiano, e vedrete la sua faccia contorcersi dall'orrore, lo sentirete pronunciare parolacce orrende accompagnate da gesti apotropaici di varia volgarità. Code apocalittiche, personale simpatico come i diavoli delle bolge infernali, valigie da ritirare e reimbarcare, coincidenze perse, bagagli smarriti, interrogatori minuziosi, a volte condotti dentro inquietanti stanzini. Benvenuti negli Usa.

Gli aerei dell'Air Canada sono comodi, soprattutto per me che viaggiavo vicino all'uscita di emergenza senza nessuno di fianco e potevo scegliere se allungare le gambe sul sedile accanto oppure stenderle in alto appoggiate alla parete. Le hostess dell'Air Canada sono le più gentili che io abbia mai visto. Il cibo dell'Air Canada non so com'è perché mi ero portata due enormi panini preparati dai simpatici commessi del banco gastronomia del supermercato in piazza Cola di Rienzo, uno con mozzarella affumicata e pomodorini secchi e l'altro con zucchine grigliate. Cibo dell'aereo, tiè.

Sogno
Lo scalo a Montreal è il sogno della viaggiatrice stanca. Le valigie te le imbarcano direttamente sul volo successivo. Il controllo di sicurezza è un unico sportello con due persone davanti a me, e la poliziotta che dice, con un sorrisetto ironico: "Toglietevi le scarpe, che state andando negli Stati Uniti". La dogana si fa in una stanzetta - territorio Usa - dove c'è un unico poliziotto che ti guarda svogliato e se ne frega bellamente del motivo della tua visita. Tempo totale fra sicurezza e dogana: 4 minuti. Durante l'attesa per l'imbarco, San Francisco incombe minacciosa nella persona di una californiana dalle spalle larghe con un frisbee appeso allo zaino che fa yoga sulla moquette dell'aeroporto.

Il primo giorno ci sono 16°. Di giorno. Di sera, mentre passeggiamo verso il ristorante afgano, ce ne saranno 12, con vento gelido e nebbia. I vestitini romani sono già lavati e riposti in valigia. Stasera maglione di lana e giubbotto. Le mie caviglie saranno contente, immagino.

mercoledì 3 luglio 2013

Ecco Zadie









Dal vivo è ancora più bella. E bravissima, naturalmente. 
QUI trovate la versione integrale del testo di cui ieri ho pubblicato un estratto.

martedì 2 luglio 2013

Zadie Smith: Creatività e rifiuto. Stasera a Massenzio

Il vero creativo è chi dice no

Per rinnovare occorre rifiutare le opinioni convenzionali La lezione della scrittrice inglese domani a Roma


Questa sera mi hanno chiesto di parlarvi di «creatività». È una di quelle parole ambigue che piacciono agli organizzatori di eventi letterari, e confesso di averla fissata a lungo senza riuscire a prendere il via. Un’altra parola dello stesso tipo è «identità». Il nostro bisogno di questi vocaboli dev’essere autentico, vista la frequenza con cui li usiamo, eppure ormai si sono consumati, come un vecchio paio di scarpe che lasciano entrare più di quello che tengono fuori.
La parola «creatività» ha avuto un declino particolarmente lungo. Il critico marxista Raymond Williams ne traccia l’involuzione nel suo dizionario della cultura moderna, Nuove parole chiave. Williams racconta che la «creazione» nasce come prerogativa degli dei (come nella massima di Agostino «creatura non potest creare»: la creatura creata non può a sua volta creare), e da quella vetta decade, nel XVI secolo, a sinonimo di «falso» o «imitazione». «O sei soltanto», chiede Macbeth, «un pugnale della mente, / Una creazione falsa che nasce dal cervello / Oppresso dalla febbre?». Per gli elisabettiani, tutto ciò che era «naturale» rappresentava la verità. Tutto ciò che era creato dalla mente degli uomini risultava in un certo senso secondario, sospetto. Una leggera macchia di vergogna che durò a lungo, arrivando a sfiorare persino i romantici.
Ai giorni nostri, sostiene Williams, usiamo la parola «creatività» per nascondere a noi stessi il fatto che le arti non sono dominate da innovazione e originalità, bensì dalla «riproduzione ideologica ed egemonica». In altri termini: ci piace pensare che le «arti creative» rappresentino una forma di ribellione contro l’andamento delle cose, mentre il più delle volte non fanno altro che rafforzare lo status quo . La parte più dolorosa arriva alla fine: «La difficoltà sorge quando una parola che un tempo era destinata, e spesso lo è tuttora, a rappresentare un concetto serio ed elevato, diventa convenzionale. […] Di conseguenza qualunque opera letteraria fasulla o stereotipata può essere chiamata, per convenzione, scrittura creativa, e gli autori di testi pubblicitari possono descriversi ufficialmente come creativi».
Credo che sia proprio in quest’ultimo senso, molto lato, che sento usare più spesso la parola nella mia città adottiva, New York. A una festa una ragazza potrà dirvi, tutta fiera, che lavora nel «branding creativo». L’uomo che ci disinfesta l’appartamento dagli scarafaggi parla di trovare «una soluzione creativa al problema». Il settore marketing di una grande azienda è considerato il suo «centro creativo». Mentre scrivo queste parole, a New York si celebra ufficialmente la «Settimana creativa« («In cui pubblicità, design e digital media entrano in collisione con le arti»). A Manhattan, quando una persona viene descritta come «creativa», in genere significa che ha trovato un modo particolarmente ingegnoso per vendervi qualcosa.
L’altro posto dove sento spesso questa parola è, prevedibilmente, il numero 58 di West 10th Street, dove insegno in un corso di Scrittura creativa. Lì la parola «creativo» si è trasformata da aggettivo in sostantivo. «Fin dalla più tenera età», scrive una studentessa nella lettera di candidatura, «sapevo che il mio destino era essere una Creativa». Il supplemento domenicale del New York Times tortura regolarmente i miei studenti con articoli esagerati sulla fantastica vita di questa persona, la «Creativa». Abita a Brooklyn, lavora seduta in un caffè con il suo portatile, fa gli orari che vuole e non deve rispondere a nessuno. Non potrei certo negare a un giovane questa comprensibilissima aspirazione (anche se personalmente non ho mai scritto neppure una parola creativa in un caffè), ma a volte mi domando se l’attrattiva principale sia la scrittura creativa in sé o questo stile di vita tanto reclamizzato.
Per creare qualcosa, come sapevano gli dei, occorre una certa audacia. Ma benché i miei studenti siano ottimi lettori, a volte geniali, spesso all’inizio scrivono in modo stranamente esitante. La loro è una scrittura che mira a piacere; una scrittura, in particolare, che cerca di occupare una presunta nicchia nel mercato letterario. Spesso questa nicchia è caratterizzata da quell’altra parola ambigua, «identità».Ho sentito Salman Rushdie dichiarare, poco tempo fa, che il suo consiglio più importante ai giovani scrittori asiatici contemporanei è il seguente: «Non devono esserci frutti tropicali nel titolo. Niente manghi, niente guaiave. Niente del genere. Anche le bestie tropicali sono problematiche. Pavoni eccetera. Lasciate perdere quella roba».
Se i romanzi asiatici sono di moda, questo non significa che dobbiate trasformare la vostra persona in un feticcio. O per dirla in un altro modo: non è creativo permettere alla logica del mercato di penetrarvi nella mente. Uno dei vantaggi del mestiere di scrittore è, o forse era, la sua relativa indipendenza. Al contrario del cinema e della televisione, non occorre soddisfare un comitato né ottenere un’autorizzazione prima di mettersi a scrivere. Ma cosa succede se abbiamo interiorizzato un comitato immaginario? A volte gli studenti sembrano più sintonizzati sulle chiacchiere dei pr dell’editoria che su quanto avviene nella loro mente. Si propongono di scrivere il «Prossimo Grande Romanzo Postcoloniale», un’«Epopea Multigenerazionale”, o un «Delicato Dramma Storico Canadese». Non molto tempo fa, al termine di un semestre, uno studente mi ha chiesto: «Come hai scelto il tuo marchio letterario?».
Quasi tutto il tempo che trascorro con gli studenti è occupato dal tentativo di convincerli che la creatività è qualcosa di più che trovare il pubblico perfetto per il prodotto perfetto. A mio parere, un vero Creativo non dovrebbe accontentarsi di soddisfare una domanda preesistente, ma dovrebbe modificare la nostra idea di ciò che desideriamo. Un’opera d’arte forma il proprio indispensabile pubblico, crea un gusto per se stessa. In questo senso, al cuore della creatività si trova un rifiuto. Perché un’opera veramente creativa evita sempre di vedere il mondo come lo vedono gli altri, o come viene generalmente descritto. Rifiuta le opinioni convenzionali e generiche: «rinnova». A volte questo cambiamento di prospettiva forzato crea piacere, e una Creativa deve considerarsi molto fortunata se ciò avviene. Ma deve anche prepararsi alle reazioni più consuete: disagio, ripugnanza, confusione, shock, persino rabbia.
Di rado ciò che è davvero nuovo s’insinua con facilità nello stato di cose esistente. Come minimo provoca un po’ di attrito. Eppure trovo difficile coltivare e promuovere negli studenti – soprattutto americani – la disponibilità a rischiare di non piacere. Vengono educati a seguire il principio della domanda e dell’offerta, del rapporto tra intrattenitore e pubblico. Come antidoto, all’inizio di ogni corso, assegno la lettura di Kafka, nella speranza che li renda più audaci. Perché Kafka era un Creativo la cui creatività non si fondava sul bisogno di approvazione. Un uomo per il quale la creatività era di per sé una forma di rifiuto.

Traduzione di Silvia Pareschi © Zadie Smith 2013

[Articolo pubblicato su "La Stampa" del 1° luglio 2013. La versione integrale verrà letta questa sera al Festival delle Letterature di Roma)